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ERA PASSATA UNA SETTIMANA

 

“Gli “zinzuli” sono i vestiti e gli addobbi dei poveri, gli stracci da niente, e la saggezza popolare volle così ironicamente chiamare la grotta, addobbata di tutto punto di stalattiti e stalagmiti, fra spettacolari profondità”

 

 

Era passata una settimana. Una settimana in cui Gino aveva  continuamente pensato a lei. Gli pareva evanescente, altalenante, sfuggente. Comunque, gli aveva fatto perdere quel suo sia pur precario equilibrio interiore, che solo di recente, e tanto faticosamente, aveva raggiunto. Ma, come un uragano, Loredana era passata sopra a tutto. E adesso niente era più come prima.
Una settimana. L’uragano. Modificazioni profondissime.

Una svolta epocale.
Poi, si pensava insieme a lei, in un singolare - plurale, che aveva trasformato l’ io in noi.
La pensava sempre, del resto.

 

Loredana aveva fatto amicizia con altri ospiti del suo albergo: coniugi di mezza età, signore con bambini, pensionati. Aveva legato soprattutto con due signorine di Varese, che si dichiaravano “single”, ma che un tempo tutti avrebbero qualificato semplicemente zitelle.

Scendeva in spiaggia verso le undici e ci rimaneva fino al tramonto, fra chiacchiere, fotoromanzi e lunghe, estenuanti nuotate. Di sera, giocava a carte in albergo, in lunghe, estenuanti partite di burraco, imparato ben presto dagli altri, per poi andarsene a dormire subito, convinta.

 

Vuoi giocare con noi?” - gli aveva chiesto quel giorno, in spiaggia, dove Gino andava sempre un po’, di pomeriggio tardi, insieme agli altri della sua compagnia, giusto il tempo dei saluti e delle amabili amenità.

No, grazie...Vorrei riuscire a rimanere immune da questa specie di frenesia collettiva per il burraco che da anni pare aver contagiato un po’ tutti, qui, nel Salento...E poi a me piace soltanto il poker!” - le aveva risposto, guardandola bene, e scoprendola fisicamente come rifiorita, da quando l’aveva vista la prima volta.
Bella come un abc, come un lunedì, di vacanza dopo un anno di lavoro...” - sentenziò Cosimino a voce alta, mentre si era alzata e si era avvicinata a Gino, all’estremità del gruppo.
Portò poi le labbra vicino al suo orecchio e gli sussurrò dolcemente:
Che fai domani?”.
Si voltò verso di lei e le bisbigliò, senza nemmeno aver capito bene di che cosa si trattasse in realtà: “
Non lo so. Non penso mai al futuro..”.

E dai...”, insistette.
Domani...Domani...”, farfugliò, guadagnando qualche secondo, per superare la sorpresa; ma poi intuì che faceva sul serio, riprendendosi subito.

 

“Domani sono impegnato con due vecchie nobildonne di Varese, per organizzare un banco di beneficenza a favore del canile municipale” - le aveva risposto, ispirato, sorridendo.
Rise. “
Che peccato...Pensa che potevi uscire con una giovane e bella ragazza...”.
E dove sarebbe questa ragazza giovane e bella?” - le chiese, pronto, mettendosi in ginocchio e portandosi sulle ciglia la mano destra, che girò come a esplorare l’orizzonte.
Ma si beccò una manciata di sabbia sulla schiena. “
E smettila di fare lo scemo! Ho sentito che qui vicino c’è una grotta sotterranea molto bella, in cui si arriva soltanto dal mare...Una specie di meraviglia, mi han detto...Una cosa incredibile...Mi ci porti?”.


 

Le stagioni del sole impazzavano convinte, all’acme, ormai verso Ferragosto, mettendo a dura prova di resistenza il fiato e la pelle.

In una splendida mattinata di mezza estate, di caldo soffocante, secco, asciutto, senza vento, una BMW rossa percorreva la strada litoranea che costeggia tutto quanto il Salento, affianco alla costa dei suoi due mari, l’ Adriatico e lo Jonio, che si vanno a incontrare all’estrema punta del tacco dello stivale, là dove finisce la penisola, davanti al capo di Santa Maria di Leuca, finibus terrae.
Fra quest’ultima località e, invece, il punto più orientale d’ Italia, Otranto, sull’Adriatico, sta, all’incirca a metà strada, il centro turistico di Castro. Nelle sue contrade, l’acqua marina penetra nella roccia scavando scenari meravigliosi e molte grotte scendono all’asciutto sotto il livello del mare, che comunque ne rimane l’unica via di accesso.
Resti di civiltà preistoriche di eccezionale importanza si offrono poco oltre; spettacolari graffiti, sottoterra, all’interno, fra resti di antichissimi monumenti pieni di fascino e, soprattutto, di misteri; zone orfane della Magna Grecia, di cui hanno conservato nel dialetto evidentissime tracce; fortificazioni medioevali, per lo più torri, poste a presidio del mondo cattolico contro le scorrerie dei pirati turchi; campagne di terra rossa, inframmezzata da scogli, retaggio evidente di un’epoca lontana, quando là c’era il mare; posti isolati, su cui soffia lo scirocco d’estate e la tramontana d’inverno, con uguale tenace accanimento.

 

Dopo pochi tornanti in discesa dalla litoranea, a Castro Marina, un ampio piazzale- che si protrae nei mare come una portaerei- si apre davanti all’ingresso della grotta principale, ma, quando arrivano le stagioni dei sole, è sempre affollato di auto, specie di agosto, intorno a mezzogiorno, quando poi trovare un parcheggio diventa un’impresa, di modo che in breve la situazione si fa critica, perché sulla strada stretta e ripida non si può tornare indietro, ma, al tempo stesso, non si può rimanere oltremodo ad aspettare che qualcuno vada via e liberi un posto: così si finisce con il rendere impossibile la circolazione, in attesa di trovare una sistemazione, attesa che diventa spasmodica, se attuata sotto le lamiere dell’auto, coi raggi del sole che battono a picco.

 

-E meno male che ti ho convinto a venire con questa che ha il climatizzatore! —disse Loredana, che sembrava finanche divertita dall’esperienza, al contrario di Gino, che cominciava a dar segni di insofferenza, indicando inutilmente alla conducente improbabili varchi in cui infilarsi, fino a quando, dopo qualche interminabile minuto, si compì il miracolo di un posto liberatosi in cui parcheggiare.

-Peggio che in centro a Milano il sabato pomeriggio-bofonchiò, scendendo.

 


 

Un jeans e una maglietta, imperlati di sudore, i lunghi riccioli lasciati spettinati sulle spalle, la giovane guida recitava il copione con l’aria svogliata di chi ha imparato il monologo a memoria e lo ripete meccanicamente, per l’attenzione partecipata della comitiva snodatasi per lo stretto sentiero di tufo che porta davanti alla grotta, nelle cui viscere si può penetrare poi via mare.
Gli “zinzuli” sono i vestiti e gli addobbi dei poveri, gli stracci da niente, e la saggezza popolare volle così ironicamente chiamare la grotta, addobbata di tutto punto di stalattiti e stalagmiti, fra spettacolari profondità, di cui una ricolma di sterco di pipistrello.
Fuori, il mare è di colori incredibili, dal verde smeraldo, al blu prussia, in technicolor; la profondità è elevata; ci si può tuffare dagli scoglia a strapiombo, che costituiscono ottime piattaforme naturali per bagnanti spericolati, a vari livelli d’altezza e di relativa incoscienza.
Più tranquillamente, ci si può tuffare dal trampolino della piscina che si trova dall’altro lato di un accogliente stabilimento balneare, dove Gino e Loredana, finita la immancabile visita guidata, che non vollero di comune accordo approfondire, si distesero al sole.
Un panino, una birra, un gelato, una sigaretta. Sollecitate, sia pur dolcemente richieste, prima di un fermo “voglio sapere tutto di te”, le parole per raccontare le storie di ieri.


 

Finita la scuola, fui il primo a lasciare il paese. Non potevo più stare a casa: mia madre era morta, stroncata da un’inspiegabile malattia; mio padre si era risposato; mia sorella era troppo piccola; non avevo più nulla in comune; mi era tutto estraneo; ugualmente, non avevo un lavoro, una prospettiva concreta.
Avevo letto Keruac, quello di “on the road”, sulla strada: bisognava mettersi in viaggio e andare, non importava dove, bastava andare. Avevo diciannove anni, nemmeno compiuti.
Una dolce mattina di settembre, di languido sole, misi un po’ di cose dentro una sacca, salutai mia sorella, che mi regalò una caramella, mi misi a piangere e andai via per davvero.
Non sapevo dove, ma sapevo che andavo via e che non sarei tornato più, se non per poco, per pochissimo, in futuro.
Su di un camion sgangherato arrivai fino a Bari e raggiunsi il casello dell’autostrada, per continuare l’autostop. Si fermò un TIR che portava al nord un carico di frutta e verdura. L’indomani mattina, all’alba, eravamo ai mercati generali di Milano.

Ci rimasi...
Andai a trovare certi compaesani che conoscevo di vista; piano piano mi ambientai; mi sistemai per conto mio; cominciai a lavorare.
Sono stato un precursore...

Per i primi tempi, infatti, feci con netto anticipo quello che poi avrebbero fatto i Marocchini: lo scaricatore di cassette di frutta, il venditore ambulante di cerotti e fazzolettini, il distributore di volantini pubblicitari.
Eppure, ricordo con rimpianto il clima di quei giorni, quando tutto era una scoperta, che avevo voglia di conoscere, e tutto una speranza, che avevo voglia di realizzare.

 

La prima proposta interessante mi fu fatta da uno del bar delle scommesse, uomo di Epaminonda: picchiare una ragazza un giorno, accoltellare un giovanotto un altro, sparare sull’ insegna di un negozio l’altro ancora...Cosette semplici, non impegnative, tanto per cominciare...”Il fisico ce l’ hai, la faccia quasi...” mi aveva detto.

“No, grazie...” - avevo risposto subito - “Meglio di no...”.

 

Quel bar, che adesso non esiste più, era un vero e proprio ufficio di collocamento.

Il secondo lavoro che mi fu affidato era già più pulito, in un certo senso, ma ancora più schifoso dell’altro: avrei dovuto fare compagnia a un vecchio notaio bavoso e vizioso, hai capito che genere di compagnia? Il fisico ce l’avevo, grazie a Dio, la faccia quasi, ma all’appuntamento fissato non mi presentai, squagliandomela in tempo...

 

 

 

Sempre al bar, però, dopo qualche giorno incontrai un Irakeno, appena scappato dal suo paese, e fu in un certo senso la mia fortuna, che, se no, non so che altro mi avrebbe proposto la dinamica imprenditoria lombarda e, soprattutto, non so più che cosa avrei risposto io.

 

 

Aziz aveva pronto uno smercio di tappeti, sistemati in un semi-interrato di uno stabile dalle parti di viale Zara; io andavo a venderli insieme a lui, con qualche affanno e senza ricevuta fiscale, ma li vendevamo, a volte nelle maniere più assurde, sempre al di sotto del loro valore, perché, davvero, valevano comunque più di quello che chiedevamo noi, ma, insomma, non era il caso di indagare sulla provenienza, né di andare tanto per il sottile, dal momento che riuscivo in questo modo a fare i primi soldi, che mi permisero di rifiatare un po’ e di potermi guardare attorno con un minimo di tranquillità.
Sempre al bar, venne pure il direttore commerciale di una radio libera, come si diceva allora, che stava nel palazzo accanto. Avevo già fatto amicizia con le annunciatrici, poi la feci con lui.

 

Cominciai a girare fra pellicciai e mobilieri, soprattutto quando la radio diventò tivù e io account, cioè venditore di pubblicità.
Dopo qualche tempo ancora, riuscii a fare un mega contratto pubblicitario a un costruttore nuovo, che aveva realizzato villette a schiera eleganti in tutta la prima cintura. Rimase talmente colpito dalla mia dialettica tentatrice e realizzatrice, che mi propose di lavorare per lui, a vendere villette eleganti.

In breve divenni il suo uomo di fiducia: chi gli trovava i clienti migliori, gli teneva i contatti giusti, gli risolveva le commissioni più difficili.

Era il Commendatore.

 

Intanto, prima che l’uomo della mia vita, in un certo senso, avevo trovato LEI, nel senso giusto, la donna della mia vita.

 

Al sabato, con gli amici del bar, avevamo cominciato ad andare a ballare al Rolling Stones. C’era la scritta luminosa che scorreva sull’entrata; una grossa palla luminosa sospesa in alto nel centro della sala; i fari intermittenti ai lati, sulle impalcature di ferro; ragazzi e ragazze; fumo di sigarette e parole di bugie aleggianti nell’aria.

 

LEI veniva con le sue sorelle, i vicini di casa e i suoi ex compagni di scuola.

L’avevo vista fissa, praticamente sempre, ma non era questo, no: era che ogni settimana si baciava con uno diverso.

 

 

 

 

Cioè, veniva con i suoi amici, sempre gli stessi, ma poi, regolarmente, attaccava con uno di quelli che le ronzavano attorno, ci faceva conoscenza e poi, sportivamente, devo dire, ci si baciava, seduta sui divanetti bianchi più appartati degli angoli più riposti, dandosi appuntamento per la volta dopo, quando puntualmente avrebbe esaurito la conoscenza, per cominciare un’altra allo stesso modo. Ma non era questo, nemmeno...
Era che uno della sua comitiva fissa la guardava con ammirazione sconfinata, le parlava come a una dea, la considerava la sua musa e LEI niente, lo trattava con sufficienza, con divertita tolleranza, con supponenza, quasi, pur continuando a illuderlo.

 

 

“Non lo amo! Non lo amo!” mi disse quel sabato, quando finalmente decisi di passare dalla teoria alla pratica, dalle riflessioni all’azione. E poi mi baciò.

 

Ma io non aspettai il sabato successivo.

 

Già il lunedì sera l’andai a prendere allo studio del commercialista dove lavorava, vicino il Pirellone e la Centrale, da dove poi-  presto divenne un’abitudine - la sera prendevamo il metrò fino a Sesto San Giovanni, dove abitava, con un bel tragitto supplementare a piedi fino a casa sua, al secondo piano di due palazzoni giallo e marrone, ai margini del paese.

Facevo giusto in tempo a scappare in centro dovunque mi trovassi, entro le diciannove, prima che uscisse dal lavoro, per lasciarla sotto il portone di casa e rifare il tragitto all’indietro, di nuovo in centro e da lì al volo l’ultimo metrò.
Lo feci la prima volta quel lunedì.
Era una bellissima serata di giugno, profumata e tranquilla; c’era ancora il sole, caldo e luminoso.
Quando spuntò dal portone dello stabile, aveva un paio di pantaloni rosa pesco geometricamente modellati e una maglietta bianca con fantasia colorata, lunghissimi i capelli, sciolti fino ai fianchi.

 

Non se lo aspettava.
Mi disse che andava a casa, le dissi che l’avrei accompagnata.

 

Diventai un pendolare dell’amore nella grande Milano, per quasi un anno intero, ogni giorno, a meno che non avessi impegni proprio inderogabili. Di sabato non andavamo più a ballare, ma ce ne andavamo in giro, da soli, o con i suoi amici.

 

Ci sembrava di creare qualcosa di importante.

 

 

Subito dopo che finii il servizio militare, ci sposammo senza pensarci troppo, come per affrontare una specie di percorso obbligato. Ma per me era un traguardo, ne ero convintissimo. Per lei una tappa, dove è rimasta, sia pur tornando e ritornando, anche troppo, se ne accorse presto. Non c’è bisogno, poi, di scomodare la psicoanalisi per capire quanto io avessi bisogno di una famiglia mia e, invece, quanto LEI avesse bisogno di lasciare la sua.

 

E poi, eravamo troppo giovani...Via...Senza esperienze, che dovevamo farci tutte quante...Senza maturità, che dovevamo ancora acquisire... Comunque, risolte le sue preoccupazioni, trovato un giusto equilibrio, a discapito del mio, ben presto cominciò ad andare oltre, a ciò unendo le sue continue richieste di nuove esigenze materiali e sociali: cene, amici, discoteche, i mobili di casa, i viaggi...

 

La Milano da bere, i dorati anni Ottanta, nel frattempo entrati nel vivo delle loro qualificazioni, per tanti versi straordinarie.
Si sono volatilizzati, quegli anni Ottanta, leggeri, diafani, inconsistenti, veloci, gonfi e corposi, però, al tempo stesso. Senza neppure il tempo di pensare. Che ero felice.
La felicità è quando non devi pensare a niente.

 

Uscivo di mattina, profumato di gel e dopobarba, dal nostro
appartamentino che ci eravamo comprati col doppio mutuo e giravo tutto il giorno con la macchina di servizio: andavo a sollecitare pratiche, a lasciare messaggi a sindaci e assessori dei comuni del grande hinterland, a prendere e portare clienti e collaboratori importanti, ingegneri e architetti, portavalori e portaborse.

 

Entrai in politica, divenni socialista.
Per costruire case popolari, centri di accoglienza, consultori, asili nido, ambulatori. Cioè, li costruiva il Commenda e poi li rivendeva alle amministrazioni e alle cooperative.

Non ho mai portato bustarelle, io. Io non ho mai preso, o dato, nemmeno diecimila lire in nero.
Sarò stato un ingenuo, sarò stato un fesso, ma mi sfuggiva tutto quello che c’era dietro: un altro livello, un altro mondo.

A me bastava andare in giro, dalla mattina alla sera, per compiere puntualmente le mie missioni, ottenere aumenti di stipendio che tanto non bastavano mai e accompagnare il Commendatore alle riunioni, chiamiamole così, politiche, di club e associazioni, più spesso alle serate mondane, Tognoli, Pillitteri, addirittura finanche Bettino, sullo sfondo e qualche volta di persona, fra top manager, top model e top puttane.

 

 

Ogni cosa mi sembrava una conquista. Portarla a cena, a teatro, in gita a Venezia, a Lugano, a Parigi, comprare il tivù color, il divano, la cucina. Andarla a riprendere in discoteca, dove talvolta ritornava con le sue sorelle. Farle i regali per il compleanno, l’onomastico, Natale, San Valentino e il nostro anniversario. Coi soldi sempre troppo pochi.

Maledetti soldi. Sai che tristezza da penuria...O, peggio, da digiuno...Bisognerebbe aver provato almeno una volta la fame, per sapere che cosa significa...

Oppure sempre con l’impossibilità di soddisfare quello di cui hai bisogno, o che desideri, maledetti soldi...

 

Sarò stato troppo buono, forse...Poi, le difficoltà economiche, e un progressivo, lento, ma continuo venir meno delle fondamenta, quell’affievolirsi dei gesti, delle parole, quel deteriorarsi del clima fra di noi. L’esaurirsi della spinta progressiva, l’agonia dell’amore.

 

Senza che potessi farci niente, senza che me ne accorgessi nemmeno.

Continuavo a correre, inseguendo gli aumenti di stipendio, il benessere e l’importanza.
Fino a che mi sono fermato di colpo.
Quando ho capito, le ho telefonato una mattina in ufficio e “Forse è meglio che ci separiamo” le ho detto, senza che sapessi nemmeno che cosa ciò significasse.

 

Erano cominciati gli anni Novanta.

 

Convenimmo di comune accordo di lasciar passare ancora un po’ di tempo, di convivere da separati in casa, per permettere al bambino di crescere e di non subire traumi, di modo che l’ormai già decisa separazione potesse avvenire per lui senza choc e risultasse, in fondo, una condizione tranquilla, che non gli togliesse nulla.

 

Mi fermai, all’inizio degli anni Novanta, parte seconda.

 

Il Commendatore, che non entrava più con la sua enorme mole nell’abito buono, perdeva chili di sudore freddo e bile acida a ogni interrogatorio di magistrati e a ogni consulto di avvocati. Ma ne uscì benissimo...Intatto...Da quella autentica svolta epocale che è stata Tangentopoli...Tanto da potersi poi proiettare deciso nell’esperienza di Forza Italia.

 

lo invece ero uscito malissimo dalla mia Tangentopoli privata. La separazione ha avuto su di me effetti devastanti.

 

 

 

Ritrovarmi solo, senza casa, senza famiglia, senza più niente, mi ha fatto scivolare nella disperazione più cupa. Non avevo forza da dare a me stesso, come avrei potuto dare forza all’ Italia?

 

Pubblico, privato...Personale, politico...

 

Forse ne sono venuto fuori soltanto da pochissimo, aggrappandomi alle mie attività e ai miei interessi, più autentiche e più veri.

 

Certo, ho fatto le campagne elettorali per il Commendatore, ma senza crederci: per dovere, per routine, per mestiere...Insieme agli amministratori delegati delle aziende, ai pubblicitari, ai responsabili del marketing, tanto che, fra target e budget, non mi sembravano neppure più competizioni politiche, ma strategie commerciali.
Affari, non ideali.

 

Ma sono diventati tutti uguali, per me. La stessa cosa. La stessa schifezza.

 

Pensano solamente agli interessi personali e dei loro partiti. Se ne fottono delle persone.

Del resto incapaci, cinici, insopportabili, mediocri, irresponsabili.

 

Ora sono fermo da troppo tempo ormai.

Vorrei continuare a credere e sperare ancora.

Vorrei riprendere a correre. Vorrei nuovi traguardi da raggiungere, forze nuove da riversare, attimi di mani nei capelli, di pugni stretti intorno ai fianchi, di braccia tese contro al cielo.
Vorrei ricominciare.


 

-Andiamo?
-Dove?
-Si è fatto tardi. Avevo promesso di uscire con la comitiva dell’albergo,
‘stasera...
-Uffa...
-Ma viene pure Cosimino, sai? L’aveva detto proprio lui...
-Sai che goduria, allora...
-Ma tu vuoi rimanere ancora?
-No, non è per questo...
-Appunto...Basta sole e basta mare...
-E racconti...
-Appunto...Perché allora quella faccia?
-Diciamo che magari avevo altri programmi per ‘stasera...
-Ma dai! Muoviti! Ci stanno aspettando, andiamo! E non fare quella faccia! Lo vedi che non hai capito niente?


 

-Scusa, che cosa dovevo capire? -le chiese, accendendosi una sigaretta, con l’auto ferma a uno stop, mentre la guardava aspettare il momento di ripartire dalla strada laterale che s’immetteva sulla statale.
-
Di oggi...Di poco fa...Di quello che mi hai detto...
-Di quello che ti ho detto?
- ripeté incredulo Gino, con la sua tipica cadenza, volutamente accentuata...
-
Sì, di quello che mi hai detto...Perché adesso mi sembra di conoscerti da sempre...Perciò è importante...Perché adesso ti sento mio...
-E anche questo è importante?
-Sì, anche questo...Soprattutto questo...
-E perché è importante, se è lecito?
-Perché mi permette di decidere…
-E che cosa dovresti decidere?
-Lo vedi che non hai capito niente?
- gli disse, ripartendo, divertita, con una sgommata.


 

A Porto Cesareo, dove l’appuntamento era stato fissato per tutti tramite un incrocio di sms, arrivarono con tante auto che era già sera inoltrata.

Gli amici di Varese, fra i quali c’era anche Sonia, come si chiamava veramente quella che era stata soprannominata “la biondina della Lega Nord”, seguivano con i loro fuoristrada la Mercedes di Sandro, con a bordo due signore di Brescia, Thelma e Louise, come le avevano prontamente ribattezzate, e brillantemente, perché scappate dai mariti e in vacanza da sole, la Renault Espace dell’ Antonio, che si portava appresso due ragazze di Novara, dette, dal nome di una sola, Monica e Tonica, e la Twingo gialla di Cosimino, che aveva al suo fianco Gino e Loredana dietro. Avevano familiarizzato negli ultimi giorni, alcuni nelle ultime ore, parevano affiatatissimi.

 

Lasciarono le macchine a ridosso delle dune di sabbia che costeggiano la stradina dopo di cui comincia la spiaggia, a quell’ora, ovviamente, deserta.

Lo Jonio approdava tranquillo pur con l’alta marea.

In alto si gonfiava una luna rossa, piena, bassa e talmente pesante che sembrava dovesse cadere giù da un momento all’altro.

Il cielo era punteggiato di stelle come in uno sfondo di cartoni animati.

 

Un antipasto di mare tiepido, gli spaghetti alle cozze e il risotto ai ricci di mare, le triglie allo scoglio e diverse bottiglie di Donna Marzia bianco avevano reso alla fine la conversazione, trascinatasi allegramente per tutta la cena, decisamente intima e confidenziale.

 

Prima del caffè, che, come abitudine, propose di andare a prendere da un’ altra parte, Cosimino, particolarmente ispirato dalla qualificata rappresentanza femminile, con la scusa del brindisi finale, attaccò con quello che, partito lievemente, da suo stile, si trasformò in un monologo diluito, ma sostenuto e quasi solenne.


 

Noi siamo attaccati alle nostre radici, perché le riteniamo parte integrante e imprescindibile della nostra natura, del nostro modo di essere meridionali, cioè mediterranei. Del resto, la Grecia era qui e noi ne abbiamo conservata intatta la propensione ai rapporti interumani e amicali, vale a dire nel valore che diamo all’amicizia. Nel caloroso senso dell’ospitalità, creduta sacra, così diversa dalla soltanto formalmente educata compostezza dei settentrionali. Nell’abitudine a parlare con il cuore in mano e ad esprimere con chiarezza, a viso aperto, sia le simpatie, sia le antipatie. Nel gusto di esprimere tutto ciò che viene sulla punta della lingua. Nella capacità di essere duttili, di cambiare pelle, come i Dick Dick, cioè i camaleonti, nei confronti di chi ci troviamo di fronte. Nell’arte di arrangiarci e di sopravvivere. Nella nostra voglia di vivere in piazza, ma di avere sempre un’Itaca cui tornare. Nella nostra abilità di godere di quanto rallegra e di rattristarsi senza esserlo troppo...”

 

-“Reagendo sempre prontamente alla sofferenza di cui pure è fatto il destino dei mortali...”- intervenne Gino in soccorso dell’amico, in debito di idee- “Nella nostra consapevolezza di saper e voler agire, nella tranquilla e virile attesa di quel che riserva il destino...”

 

Tanto bastò perché Cosimino ripartisse:

Nella convinzione che ci sono i cicli, i corsi e i ricorsi...Che domani è un altro giorno, si vedrà. Che sarà migliore. Nel gusto dell’inventiva che combatte quotidianamente la noia. La vita di provincia è scandita dalle pause e dai momenti dell’abbandono. Dalla noia nascono le storie più incredibili e i chiaro- scuri dell’animo si colorano di gradazioni di amicizia, affetto e amore, nelle multiformi tonalità dei sentimenti. Dall’abbandono scaturiscono i rapporti più intensi e più trepidi fra gli esseri umani. Qui ognuno ha un suo ruolo, una sua personalità e la sua specifica importanza. La vita si consuma senza fretta e si trasforma in una storia senza fine, di cui è possibile percepire i battiti che vengono dal cuore e sentire i respiri che sgorgano dall’anima...”


 

-“Io me ne torno con Sandro, la Thelma e la Louise...Le portiamo a vedere la vecchia villa di campagna...- disse Cosimino, facendo penzolare le chiavi davanti a Gino, con aria di sufficienza- “Prenditi la Twingo…Me la riporterai domani sera a casa mia...Così riaccompagni tu la Loredana...Soli soletti...Se fosse un film? Se fosse un film sarebbe...Quell’oscuro oggetto del desiderio...


 

Beh, è successo. Non ho la forza di pensare adesso. Ma non è stato un sogno, è stata realtà. Sono sicura che è successo. Non ho neppure voglia di chiedermi come è stato: semplicemente meraviglioso. Mi sono stancata pure, mi sento fisicamente distrutta, ma al tempo stesso ho in testa una sensazione lieve di appagamento e di benessere, non so spiegare, e un grande splendore dentro, nell’anima. Forse perché ho partecipato con tutta me stessa. E poi è la prima volta che mi succede così, altro che i discorsi delle mie amiche, le rubriche specializzate dei giornali femminili...Chissà come deve essere, pensavo, chissà che cosa si prova, tentavo di immaginare, oltre a quello che sentivo io...Che pure ne avevo fatte di tutti i colori, ma finendo sempre in bianco e nero, perché, al massimo, mi poteva piacere, se non subivo, ma senza fuochi d’artificio...Ecco, era proprio vero, posso dirlo: così è diverso, è un’altra cosa, è tutta un’altra cosa...Credo che mi farò proprio una bella dormita, adesso. Lievemente, dolcemente, mi addormenterò, ripensando agli attimi che è stato capace di farmi provare. E continuerà così a tenerlo stretto, stretto, tutto dentro di me.


 

No, non avrò gli incubi ‘stanotte. Non mi sveglierò subito, col cuore in gola, la gola secca e non urlerò alle scene distorte dai tarli della mente. Sono molte sere che non ho più l’incubo indistinto di un altro con LEI. Ma sì: esattamente da quando Loredana non piange più prima di addormentarsi, io non ho più gli incubi di notte. ‘Stanotte finalmente avrò un sogno da cullare, in questo vecchio lettone mio, amico fedele di tante ore disperate, finalmente non più troppo largo per me solo, ma diventato finanche stretto, perché l’ho qui ancora insieme a me, vicino a me, stretta a me. Potrò sognare la realtà accaduta più bella di qualunque pur ardita fantasia. La Twingo che fila nella notte, pulita, lucida, superluccicante, tutta ordinata e profumata. Il finestrino aperto sul mio lato guida. Loredana che mi ha chiesto di chiuderlo, io che non volevo, spiegandole che il vento fresco mi serviva a impedire che mi venisse un colpo di sonno. Il suo corpo che si distende sopra le mie gambe, che mi sembra indugiare così sopra di me per un’eternità, mentre cerca e schiaccia il pulsante automatico per farlo salire. Quando m’ha detto, subito dopo, ricomponendosi e accarezzandomi la mano sul volante, “magari possiamo trovare qualcosa di più eccitante per tenerti sveglio”, il cuore mi ha fatto un sobbalzo, mi sono sentito tutto un formicolio e mi è mancato il fiato, la lingua si è intorpidita, seccata di botto, il respiro sincopato. Ho faticato a calmarmi. Temevo che fosse come l’altra volta. Poi ho sentito la sua mano infilarsi sotto la camicia. Allora ho fermato dolcemente di lato, vicino a un distributore di benzina chiuso. L’ho abbracciata. Ho sentito il suo respiro mischiarsi con il mio, sobbalzare ai battiti frenetici, impazziti, del mio cuore. La sua bocca vicina, vicinissima. Le ho accarezzato i capelli. Ho chiuso gli occhi e l’ho baciata.


 

Da quando mi ha baciata, ho capito che per me cominciava qualcosa di nuovo. Mi sono stretta a lui, sempre di più, quando ho sentito le sue dita sopra di me e la sua lingua scivolare giù, sempre più giù. Volevo baciarlo anch’io sotto al cuore, sentire il suo desiderio, che scoprii presto prepotente. Lo misi a nudo e lo strinsi forte, sempre più forte fra le mie dita, mentre lo baciavo e lo toccavo ancora, fino a quando non riuscì a parlare e “Aspetta!” -mi disse- “Aspetta...Ti prego...Loredana...Aspetta!”.


 

Dovevo riuscire a calmarmi: non potevo, non dovevo, così, subito, sai che figura...”Andiamo via da qui, qui vicino, qui più avanti...” le ho detto e ho rimesso in moto e ho ripreso a guidare, con una mano, perché l’altra la teneva fra le sue, sopra di lei. Ho guidato soltanto con la sinistra, compresi i cambi di marcia, fino al punto che mi ricordavo. A pochi chilometri da Otranto, ho fermato là dove la statale fa uno slargo che guarda di fronte al mare, dall’ alto di una scogliera. Sul piazzale non c’erra nessuno. Mi ero spinto con l’auto fino all’estrema punta disponibile, il muso di fronte alla luna e alle stelle. Dovevo calmarmi, dovevo. Ma come cazzo si abbassano i sedili della Twingo?


 

Quando si è fermato là davanti, lo volevo, lo volevo subito. Invece aveva acceso l’autoradio. Era venuta fuori una canzone in dialetto, di cui non capivo il testo, ma di cui sentivo la dolcezza. Parlava d’amore, di desiderio. Del mio amore, del mio desiderio, che non poteva resistere. Invece, ancora, poi, non trovava il sistema per ribaltare i sedili. “Non è che mi aiuti se fai così...” -riuscì a dire, mentre avevo ripreso a baciarlo, perché mi piaceva il suo profumo e tanto lo volevo, che non potevo più aspettare. “Puoi sempre telefonare a Cosimino e fartelo spiegare...” gli dissi, mentre riprendevo fiato, ma proprio in quel momento il mio sedile si abbassò e “non ce n’è bisogno...”, mi disse, “adesso ho altro da fare...” e potei sentirlo prima sopra di me e poi dentro di me.

Iniziai a non capire più niente, quando eravamo oramai una cosa sola e a ogni suo movimento deciso e possente che scendeva, io salivo un gradino più in alto, verso il cielo.


 

E’ stato tutto facile, tutto spontaneo, tutto naturale. I suoi gemiti, le sue parole incomprensibili, le vertigini di trovarmi troppo in alto, prima di precipitare giù, velocissimamente, con uno schianto, lo stesso il suo, in contemporanea. “Non mi lasciare adesso, ti prego. Portami con te. ‘Stanotte almeno, se vuoi per sempre, tienimi con te...”-mi aveva detto. Tornando a casa, fumando, m’avevo chiesto se ero stato attento. “Non sei stata attenta nemmeno tu...”-farfugliai per giustificarmi “Cioè...Non mi avevi detto niente...Pensavo che tu...E poi io non ne uso...Cioè, non ci riesco, con il...”. “Non importa...”- mi aveva interrotto, chiudendomi la bocca con le sue dita “Di me ti puoi fidare...E penso io di poter essere sicura con te...Per il resto, non importa...Anzi, era così che volevo...Non accadrà mica di nuovo, no, dai, non può accadere...”. Poi mi aveva raccontato un altro tassello, dell’intervento, dell’aborto cui l’aveva costretta un paio di mesi prima, malgrado non volesse, perché non aveva avuto la forza di resistergli e dirgli di no. Quello che le aveva fatto capire tutto. Aveva tentato di forzare gli eventi, volendo metterlo di fronte al fatto compiuto, rimanendo incinta. Ma un’altra e più terribile violenza, la risposta. “Avevo giurato che l’avrei fatto di nuovo solamente se mi fossi innamorata”- mi aveva guardato, complice, quando scendemmo dalla macchina e teneramente allacciati ci siamo diretti verso casa. Dormivano, di sotto, e non si sono accorti di nulla. Cantavano le cicale. Volavano le lucciole. L’aria fresca della notte pungeva la pelle. La luna e le stelle illuminavano il giardino, entravano dalla finestra aperta dentro la stanza. Abbiamo fumato l’ultima sigaretta affacciati contro al cielo. Abbiamo brindato con una birra alla nostra lunga notte che stava per continuare. “Dai, vieni..” l’avevo trascinata sul lettone e l’avevo spogliata, mentre spogliava me. “Non credo che starò attento nemmeno ‘stavolta”- avevo sussurrato, prima di cominciare a baciarla prima sull’ombelico e poi subito più giù. “Non importa” - mi sembra che rispose, fra i gemiti. Il resto non riuscii a sentirlo.


“Hai visto che quel tuo amico si sbagliava?” gli avevo detto, quando ritornammo in noi per la seconda volta. Abbiamo riso. “Hai visto che hai ricominciato a correre?” avevo aggiunto, per fargli capire l’importanza di quello che era successo “L’ hai capito, vero?”. “Sì”- m’aveva risposto-“...Era questo che dovevo capire?”.