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BREMBO NORD

 

“Le auto, infatti, sfrecciavano veloci, una dopo l’altra, in file parallele, senza soluzione di continuità e c’era molto di affascinante, tanto di terribilmente strano in tutto questo e ognuna veloce scompariva subito dopo essere apparsa, portandosi irrimediabilmente via chissà quali e quante storie di chi passava appena per un attimo sotto alla mia vista”

 

 

Brembo Nord è il primo autogrill che, usciti dalla tangenziale, sull’autostrada per Padova, scavalca la carreggiata per tutta quanta la sua lunghezza e si estende, per entrambi i sensi di marcia, su due aree distinti, ma comunicanti, attraverso la lunga cabina sopraelevata, dove si trova il bar.
Le avevo dato appuntamento lì.
La stavo aspettando.

 

Era successo tutto all’improvviso, in maniera totalmente inattesa.

Magari desideriamo e aspettiamo qualcosa per tanto tempo e viceversa, poi, quando succede, restiamo impreparati, o non la riconosciamo neanche...

 


 

Più che una città, sembrava un museo in scala reale che perpetua il prodigio unico al mondo di quei palazzi che sembrano uscire dal mare e galleggiarvi per chissà quale sortilegio, capace di mettere i brividi”

 


Era andato a Venezia, quella mattina di fine novembre.
Mi ero alzato di buonora, avevo tirato come un invasato, sprezzante ai cartelli che ripetono di non superare i cinquanta in caso di nebbia, come puntualmente, nella fattispecie, fisso sulla corsia esterna di sorpasso. Ero riuscito così ad arrivare in un orario ancora decente per sbrigare le commissioni che m’aveva affidato il Commenda presso alcune società con sedi nella laguna; avevo parcheggiato nell’autorimessa pluripiano di piazzale Roma; mi ero districato egregiamente a piedi, fra le calli, e col vaporetto fino al lido; ero riuscito a fare tutto in mattinata; stavo pranzando, rilassato, prima di tornare a Milano, ‘stavolta senza fretta, in un locale moderno con vista su di una piazzetta antica, attraverso cui continuavano a passare studenti e turisti, che guardavo mangiando lentamente la mia frittura di pesce.

 

Come era davvero triste Venezia quel pomeriggio di novembre di sole pallido e malato, affetto dalla nebbia minacciosa e dall’oscurità già incombente, nell’aria fresca e pungente, sulle acque verde sporco ristagnanti, apparentemente immobili.

Più che una città, sembrava un museo in scala reale che perpetua il prodigio unico al mondo di quei palazzi che sembrano uscire dal mare e galleggiarvi per chissà quale sortilegio, capace di mettere i brividi, come a San Marco, maestosa nei portici, nei palazzi e nella chiesa, col campanile svettante da vicino e da lontano. Chi vi abita ancora, e chi vi transita per diletto, assume così irresistibilmente le sembianze di un attore, il fascino discreto di una maschera, così come quelle che fino alla noia si vedono esposte nelle vetrine dei negozi e sulle bancarelle, un’altra, un’altra di quelle false e meschine, di cui però ci ricopriamo continuamente, affinché gli altri comprimari dell’esistenza non ci riconoscano e non ci possano dunque far del male più di tanto. Una serie infinita di personaggi in cerca d’autore, che recitano a soggetto, uno, nessuno e centomila, come centomila sono sempre gli aspetti della verità, mi sembravano gli altri, le cose. Un museo e una rappresentazione, con tutto quello che di passato, di finito e di inautentico, di finzione si può trovare in un museo e in una rappresentazione, mi sembrava Venezia.

 

 

 

A questo pensavo, aspettando il conto, quando è squillato il telefonino.
Il display non aveva identificato nella memoria il chiamante, quel numero che compariva mi era ignoto; sarà il Commenda, mi ero detto al primo attimo, che vuole sapere come è andata, per poi subito dopo pensare, di fronte a quella constatazione, che fosse qualcuno dei suoi clienti, per altre probabili scocciature.

 

Era Loredana.

 

Sono a Milano, mi ha detto, dopo avermi salutato con un ciao, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Sono venuta per un colloquio di lavoro insieme a una mia amica che me l’ha proposto. Ti sto chiamando dal suo cellulare. Un’azienda milanese, interessata ad avere referenti nella nostra zona, ci ha convocate qui ‘stamattina per la selezione. Adesso abbiamo quasi finito e mi sembra che sia andata bene, a parte qualche dubbio, poi ti dico di che si tratta...Ci vediamo? La mia amica riparte. Io rimango con te, se vuoi...

 

Ci vediamo? Se voglio?
Fatti accompagnare all’autogrill di Brembo, le ho detto, in un lampo risolutore, dopo averle spiegato la situazione contingente, così ci troviamo al più presto possibile: ti fai lasciare là dalla tua amica, che poi se ne può quindi ripartire e dall’altra parte arriverò io a prenderti...Un paio d’ore... Anche prima...Un paio d’ore o poco più, chi arriva prima aspetta al bar! Hai capito bene dove?

 


 

Sono arrivato prima io.
Ho tirato i centosessantacinque fissi, nella nebbiolina leggera e frequente.

Mi ha richiamato mentre posteggiavo di sotto sul piazzale dei distributori e dei supermarket. Una decina di minuti e sono da te, mi ha detto. Il tempo per un caffè e qualche pensiero.

 

Non ci avevo più pensato.

 

Non volevo più pensarci. Erano passate tre settimane da quando avevo ricevuto due sue lettere, semplici, sentite, ma di difficile lettura, e non per la grafia, e poche sue telefonate, brevissime, affrante, indecifrabili.

 

Aspettavo gli eventi.

 

Sapevo che sarebbe successo, prima o poi.

Eppure, ero chiaramente impreparato. Non sapevo che fare, non capivo più nulla.

 

 

Il cuore mi batteva forte.
Mi rimbombava in gola in modo tale da togliermi il respiro. La bocca si era fatta secca, le tempie nella fronte mi scoppiavano. Che cosa avrei potuto dirle, in quello stato? Che cosa avrei potuto fare?

 

Dovevo calmarmi. Mi sono dato una rinfrescata in gabinetto. Ho preso la scala mobile che porta al bar sopraelevato.

 

Ho ordinato un caffè.

 

In piedi, dal lato più vicino al mio punto di ingresso, ho preso a sorseggiarlo lentamente, guardando fuori, dall’alto, dall’ampia vetrata, da cui si vedevano oltre le inferriate le auto sfrecciare veloci, per non guardare dentro, dal lato opposto, da cui fra poco sarebbe apparsa Loredana. Le auto, infatti, sfrecciavano veloci, una dopo l’altra, in file parallele, senza soluzione di continuità e c’era molto di affascinante, tanto di terribilmente strano in tutto questo e ognuna veloce scompariva subito dopo essere apparsa, portandosi irrimediabilmente via chissà quali e quante storie di chi passava appena per un attimo sotto alla mia vista.

 

Era apparsa, infatti, eppure all’improvviso in tutto lo splendore del suo fascino imponente.

Si era fermata appena sull’entrata e con gli occhi mi aveva cercato, per affrettare subito dopo il passo, dopo avermi visto, verso di me, rimasto invece fermo a guardare fuori di sotto.

 

-“Guarda!”, le avevo detto, a voce bassa, ma decisa, senza fissarla, prima che mi salutasse con un caldo e partecipato-Ciao, Gino! —“Guarda come passano veloci le auto sotto di noi. Appaiono per un attimo e subito dopo sono già scomparse, portandosi via quelli che ci sono sopra, le loro gioie e i loro dolori. Pensa, pensa a quante storie passano veloci e se ne vanno via per sempre, in un attimo appena...”.

 
Poi mi ha accarezzato il volto, con un gesto dolcissimo della mano e allora io, dopo quella carezza, leggera al tatto, ma pesantissima di significato, l’ho guardata, l’ho guardata fissa negli occhi.

C’è molto di affascinante, tanto di terribilmente strano in tutto questo, non trovi?”, avevo continuato, vicino al suo respiro, mentre aveva preso ad accarezzarmi anche con l’altra mano il viso, su cui spiccava la barbetta di due giorni lasciata apposta...

 

 

 

 

Quando mi ha fatto cenno di sì con la testa, avvicinandola di più alla mia, allora non sono riuscito a dire più nulla...
Stavo per mettermi a piangere e avrei singhiozzato a lungo e poi gridato forte al mondo intero, se non avesse abbassato le palpebre e non avesse sfiorato le mie labbra con le sue.
Allora non ho detto più nulla, non ho pianto, non ho singhiozzato e non ho gridato. L’ho baciata, dopo aver chiuso gli occhi anch’io, l’ho baciata a lungo e chissà per quanto tempo sarò rimasto così, aggrappato al suo respiro, con un braccio a stringerla sul petto e l’altro disteso a reggere la tazzina vuota.


 

Le spiavo le gambe, lasciate generosamente esposte nella loro sconvolgente bellezza, accentuata da velatissime calze nere, che mi avevano fatto riflettere stupidamente per la prima volta sul trascorrere del tempo, mentre, con folle accanimento, tenevo schiacciato il pedale dell’acceleratore, nella sera fredda e nebbiosa, lungo l’autostrada.

Esattamente come prima, aveva acceso l’autoradio, aveva chiuso i finestrini, aveva regolato il flusso dell’aria, calda ovviamente, al contrario di allora, il che m’aveva fatto riflettere stupidamente per la seconda volta sul passaggio deciso a un’altra stagione.
Fumava e mi guardava; mi guardava e mi sorrideva; mi sorrideva e non parlava.
E’ la stessa di quest’estate, vero?”, mi aveva detto, come commossa, o così mi era sembrato, quando vi era salita. “Hai visto?”, aveva aggiunto, “Hai visto, che sono di nuovo qui con te?”.
No, non aveva fame, non voleva cenare...Voleva stare con me...

Portami a vedere casa tua...”, mi aveva detto, sfiorandomi i capelli con le dita.

 

Mi aveva raccontato del suo colloquio di lavoro della mattina. Non ci avevo capito niente, ma non importava. Tanto, di tutte le sue cose, anche le più banali e insignificanti, non si capisce mai niente. Ma cosa importava adesso? Le avevo posato tenera e violenta la mia mano prima sopra, poi sotto la sua gonna nera, elegante quanto maliziosa.

 

Ero piombato sul casello della tangenziale con una lunga frenata prolungata, che mi aveva procurato un’occhiata di partecipata commiserazione da parte del casellante, al quale avevo chiesto, così, senza motivo, come mio costume, la ricevuta del pagamento del pedaggio ed ero ripartito sgommando, tirando le marce allo spasimo, sulla distesa d’asfalto che mi si parava davanti.

 

L’avevo guardata nel volto attraente, pressoché magico, che i fari delle auto, i neon delle insegne dei negozi e le spie interne del cruscotto cambiavano di volta in volta nell’apparente sembianza.
Mi sei mancato molto...”, mi aveva detto poi, gettandomi all’improvviso le braccia sul collo e stringendosi a me sul lato guida.
Anche tu...Moltissimo...”. Non ero riuscito a dirle niente di nuovo, ma non è che fossi molto lucido, perché, contemporaneamente alla mia mano, rimasta là, pericolosamente sottratta al volante, anche la sua adesso mi toccava e mi stringeva.
A un semaforo rosso ci eravamo baciati e quando ero ripartito aveva continuato a farlo sul mio collo e sul mio petto.
Arrivato nei pressi di casa mia, mentre i negozi chiudevano e i condomini rincasavano, non riuscivo né a trovare parcheggio, né a trattenermi. Ecco, ecco, quello stava per uscire, bastava aspettare, ma quanto ci metteva?

 

 

 

 

Ci siamo baciati di nuovo appena scesi dalla Twingo, sul portone del palazzo, nell’ascensore, sulla porta di casa e fino al divano del soggiorno, poi pure nello spogliarci a vicenda e quando l’ho vista quasi senza più niente addosso, il respiro mi si era fatto frequente e profondo, mentre mi ha strappato di dosso la camicia e mi ha sfilato a forza i pantaloni, toccandomi e stringendomi dappertutto.
Sentendo il suo sapore, non vedevo l’ora di entrare dentro di lei, di sentirla tutta intorno a me e di starci, di starci a lungo, di starci per sempre.


 

A cosa sto pensando?
Ma perché mi chiedi sempre a che cosa sto pensando?

E’ una domanda che non bisognerebbe fare mai, questa!

A cosa sto pensando?

Sto pensando che non so perché, ma è stato bellissimo e davvero io non so se si possa fare di più, con tanta forza, con tanta intensità.
Che sono stato bravissimo, onestamente mi devo complimentare con me stesso, non mi credevo capace di tanto.
Che mi piace il sapore che hai, quando ti bacio e quando ti bacio dappertutto...
Vedi? Come faccio a dirti tutto questo?

Ora non voglio staccarmi da te e non voglio, non voglio pensare più a niente.
Che mi sono ripreso e che, va bene, questo posso dirtelo, ora vado a prepararti un caffè, rovinato col latte come piace a te e dolce, dolcissimo come te, amore mio.
Così, ci vedremo tutti i telegiornali, questa sera, pur restando fuori dal mondo, abbracciati sul grande divano a fiori, col piumone a ricoprirci, tutti i dibattiti, tutte le tavole rotonde e quadrate, e pure il Maurizio Costanzo Show guarderemo indifferenti e lo lasceremo a cullare i nostri sogni, che saranno fatui e struggenti, quando, stanchi, sfiniti, stremati, di nuovo e ormai una cosa sola, ci addormenteremo, con l’altra poca luce che filtra dai vetri della stanza, fino al nostro angolo, coi termosifoni spenti, ma ancora tiepidi, senza il freddo di fuori, dove la nebbia avvolge tutto, quando i venti della notte muoiono.


 

La grande Milano ti ha accolta con una giornata caratteristica delle sue abituali, freddo nelle ossa e nebbione complementare a gradire, che ha lasciato lentamente e momentaneamente il campo al cielo grigio metallizzato e che tornerà puntualmente all’ora di un tramonto lasciato all’immaginazione.
Se non l’avevi mai vista bene, ma sempre di passaggio e di sfuggita, eccoti servita, amore mio, in questo pomeriggio decisamente invernale, nel centro già più animato e più ingombro, così come sarà per tutto questo periodo, fino a quando verrà Natale.
Non è che manchi molto, poi...Del resto, queste emozioni bruciano la vita e fan passare il tempo, mentre tutto scorre e il mondo gira. Cosimino direbbe gira gira il mondo e gira il mondo e giro te, ma tanto non dice nulla, perché l’ultima volta che ha telefonato si è un po’ alterato, amore mio, come? Perché? Lasciamo perdere...Lasciamo perdere l’oggetto del contendere...Non è che non te lo voglio dire...Bisogna sempre per forza dire tutto? Pensiamo allo shopping...

 

Disinvolto e a mio agio, stretto nel Fay, un velo di gel ora gelato ai lati dei capelli, ravviati come sempre all’ indietro e sempre i mitici occhiali da figo, calati anche senza che ci fosse, a dire la verità, tutto questo sole da cui proteggersi, cammino al tuo fianco, vincendo l’imbarazzo di prenderti per mano.

 

Insieme a te sto bene, amore mio, sto bene soltanto insieme a te.

 

Ma perché non parlarne oltre? Perché abbiamo accuratamente evitato tutto il giorno di pensarci? Che fra poco te ne andrai di nuovo e che allora poi saremo di nuovo di fronte all’angosciante domanda: e adesso? Adesso che succede? Tu forse per pudore, io certo per viltà...Ma non ne abbiamo parlato, non abbiamo deciso proprio niente pure di quel poco che avremmo potuto decidere...

 

Cosa accadrà di noi? Cosa possiamo fare?
E perché, l’unica volta che t’ho detto che volevo venire con te, mi hai risposto sottovoce, ma risoluta: “
Meglio di no...Adesso no...Adesso non è possibile...Ci pensiamo poi, eh?”.

 

La prossima settimana, di nuovo...La prossima settimana, di nuovo...Come sei bella oggi, Loredana...Adesso che ti posso seguire bene, dal vivo e in diretta sei ancora più bella che nel playbach dei miei sogni registrati.

 

Anche tu sei bellissimo...Ti trovo veramente bene...”, mi hai detto all’improvviso, con una di quelle sorprendenti espressioni del tuo viso, parlandomi delle abitudini quotidiane e delle solite occupazioni con cui hai riempito tutti questi giorni, almeno per me di lontananza e di solitudine.

 

 

 
Poi hai pazientemente ascoltato con appena accennata aria di sopportazione il racconto del mio monotono tran tran e gli aggiornamenti del dibattito che nel mio intimo personale mi riportano sempre a te, sebbene tu abbia poi elegantemente evitato ogni accenno all’immediato futuro, non solo, ma non abbia assolutamente voluto sbilanciarti in un’analoga operazione di riconsiderazione personale, fra realtà e prospettive.

 

Niente, non hai voluto dirmi, o spiegarmi niente. Solamente: che non stavi con lui, senza altri ragguagli; che volevi stare con me, senza altri particolari.
E poteva, doveva bastarmi questo, evidentemente, se non hai voluto parlare più, nemmeno ascoltarmi, sia pur per cenni, a proposito dell’attività possibile di agriturismo.

Non pensiamoci adesso...”, mi hai detto soltanto, “Tanto ci riusciremo...Ne sono sicura...Ci riusciremo!”.

 

Così te ne sei andata via.
Hai rotto gli indugi, che di lì a poco m’avrebbero sicuramente procurato deprecabili manifestazioni di carenza d’affetto; hai fatto il biglietto, aspettando il tuo turno in fila alla biglietteria della Centrale attaccata a me, appiccicato al tuo fianco; non ti sei dimenticata di obliterarlo; e mi hai dato un compito bacino sulle labbra all’ingresso dei binari, mentre l’altoparlante già chiamava la partenza.
Così, ti sei fiondata sul primo vagone raggiungibile e da sopra mi hai lanciato un altro bacio volante con la mano, prima che il capostazione ti chiudesse appresso, sbattendola, la portiera e fischiasse convinto e, appena messosi impercettibilmente in moto il convoglio, hai continuato a salutarmi con la mano, mentre ti allontanavi sulla lunga linea scura all’orizzonte e sei diventata prima più piccola, sempre più piccola, poi subito un’immagine sbiadita e infine di nuovo un ricordo.
Così, per quanto cercassi un po’ di sollievo nella constatazione che secondo l’antica leggenda tradizionale rivedrai una persona che hai visto allontanarsi all’orizzonte, sono rimasto solo, le braccia abbandonate lungo i fianchi, lo sguardo perso nel vuoto, gli occhi sbarrati, senza la forza di decidermi a muovermi, di tornare a casa, di fare, insomma, qualcosa. Avevo male.
Così, mi era rimasta solamente una disperata voglia di piangere e nemmeno ci riuscivo.