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DICONO CHE COL TEMPO PASSA

 

“Ci ho provato, non è che non ci ho provato. Ma non sono riuscito a dimenticarla. Mi manca. Mi manca come il pane a un affamato, come l’acqua a un assetato, come tutto a chi non ha niente”

 

 

Dicono che col tempo passa, che piano piano te ne dimentichi.

Credono che i giorni buttati via siano la migliore medicina per lenire il dolore e provocare l’oblio.
Io ci ho provato, non è che non ci ho provato.
Di nuovo, ma con convinzione, con determinazione, con rinnovato impegno, se non entusiasmo, nelle occupazioni quotidiane, i problemi rimasti insoluti, le nevrosi ricorrenti irrisolte, i tristi fardelli che ci portiamo dietro e che hanno felicemente definito il logorio della vita moderna.
Magari non ci pensi, fino a sorprenderti di pensare di non averci pensato. Allora è vero?
Tutto scorre.
Ma in realtà ci penso, ci penso ancora, ci penso spesso. Mentre magari sto facendo tutt’altro, mi sorprendo a rivedere alcuni particolari, a riesumare talune situazioni, oppure a tentare di scoprire come andrà a finire, anche se a volte mi prende l’angoscioso, terribile sospetto che la parola “fine”, in realtà, sia stata già scritta.

 

Uhé, Gi- net- to! Il Commenda. Il capo. Il capo ha sempre ragione. La mia vita che dipende dal capo. Qualsiasi cosa, a disposizione. Alle solite. Abbiamo già ricominciato.

 

Certo, all’inizio è stato più difficile.

Sarà stato quel vento d’agosto metropolitano a lasciare il primo segno, coi temporali improvvisi e violentissimi. Saranno state poi le impressioni di settembre, con le piogge ora fitte, ora rade, ma comunque insistite, monotone, malinconiche, indisponenti. Saranno stati poi quei casermoni di cemento adibiti a edilizia popolare dei centri satelliti nell’hinterland della grande città, dove avevo preso a girare da un punto all’altro per lavoro, cercando di non innervosirmi nel traffico convulso e disordinato. Sarà stata la penuria finanziaria, gli stramaledettissimi problemi cronici di liquidità: e prendersela non tanto per essere a corto di denaro, tanto, in fondo, ci sono abituato, ma per il fatto di preoccuparsi di esserlo, di dover così dare ragione a questa società che dai soldi in banca ti giudica, dal portafogli, il bancomat, la carta di credito. Poi, proprio quando credevi di esserci riuscito, nonostante non si sia fatta viva in nessun modo, di più proprio perché non si è fatta viva in nessun modo, invece, ecco, lei, di nuovo lei, sempre lei, nella mente.

 

 

 

L’indirizzo non ce l’hai, rintracciarla sarà un problema...”- aveva chiosato, ‘stavolta parafrasando e non citando direttamente la fonte, Cosimino- “Come farai a telefonarle e ad offrirle una serata strana?”.

 

 

 

 

 

Un mese.
Il solito tran tran ricominciato, come prima, più di prima, consolidato,
acquisito.
L’ambaradan medesimo.
Ma...
Qualcosa è cambiato.


 

Mi sembra di essere stato fin troppo chiaro adesso, tanto da non dover lasciare più dubbi. Scusami per poco fa. Non volevo. Non avrei dovuto farlo, neppure per l’ultima volta. Ma non devi illuderti. E’ successo adesso, non succederà più. Sarà una schifezza di addio, ma è pur sempre un addio, inconsueto, magari, però forse il finale più degno di questa nostra specie di relazione. Adesso basta. Adesso è diverso. Poi, di tuo marito, in fondo, mi vergogno...E non bisogna vergognarsi mai, nemmeno nell’intimo privato di te stesso, di quello che fai. E’ l’ultima volta che ci vediamo...E’ finita...No, non ho un’altra...Non ho nessun altra...E’ finita perché doveva finire, ed è finita, adesso...”.


 

Ho chiuso l’autoradio della Twingo. Ho acceso una sigaretta. Ho alzato col pulsante elettrico il vetro di sinistra prima, al solito, tenuto aperto, per poggiarci il gomito, durante la marcia di avvicinamento, e però nella fattispecie in maniera del tutto velleitaria. Fa già quasi freddo. L’autunno incipiente ammanta di aria fresca questo tramonto.
La giacca e i pantaloni di lino, regolarmente spiegazzato vissuto, appaiono ai primi di ottobre del profondo nord, Milano, Italia, del tutto al di fuori di ogni logica comportamentale.
Sto pensando, mentre aspetto il personaggio che sono andato a scovare e che deve arrivare a portarmi i documenti urgentissimi alla pratica da definire domani mattina presto inderogabilmente. Pure di domenica non si può stare tranquilli, ce n’è sempre una, senza soluzione di continuità. Ma meno male.
Aspetto, seduto al lato di guida della Twingo fermo al parcheggio della stazione.
Aspetto e penso.

Il capolinea del metrò a Sesto San Giovanni si allunga su di un ampio piazzale, disegnato a margine di una strada larga in orizzontale, su cui le auto corrono veloci, e da un’altra più stretta, che vi si butta a esaurirsi. Sullo sfondo si dilunga un grande emporio di mobili, un palazzo adibito ad albergo si erge poco oltre.
Guardo i cartelloni pubblicitari e rifletto sullo slogan di uno che non riesco a capire, fatte pure svariate ipotesi interpretative.
Un ragazzo e una ragazza si baciano poco più in là appassionatamente abbracciati.
Ma penso, ‘stasera penso a lei, che non ho più né visto, né sentito in nessun modo, irresistibilmente la penso e la desidero.
Ogni due, tre giorni, almeno, nei modi e nei tempi più assurdi, Cosimino mi telefona. Sono telefonate magari strane, ma mai banali e sempre molto partecipate.
Invece, Loredana non l’ha mai più fatto.


 

Benzina potente di una miscela di delusioni, ansie e speranze tradite mi spinge ancora nella grande città, quest’altro sabato pomeriggio, di un ottobre assolato e denso di atmosfere, ma subito nebbia, quand’è ancora presto, fra poco sarà ed è subito sera. Un periodo buio e senz’amore, quando l’eterna illusione, se è vero che certi sogni durano tutta una vita, mi spinge a cercare una donna come quella che vuoi e che non c’è con te, non solo, ma chissà dove si trova, pure, chissà che fine ha fatto. Ma non si improvvisano le cose del cuore, adesso al massimo potrei chiederle come quei mendicanti seduti per strada, oltre i tavoli dei bar eleganti, nel centro sfavillante di neon già accesi al precoce imbrunire, portato di colpo dalla nuova/vecchia ora solare. Fighissime vestite di attrazione ostentata si mettono in mostra audaci, prede irraggiungibili di impossibili avventure. Destini diversi si incrociano per un attimo, chi parte, chi arriva, nell’atrio affollato di Milano Centrale, mentre davanti al Pirellone mi piacciono due ragazze, tutte e due, che guardo fino al verde dall’auto ferma al semaforo e che mai più potrò rivedere. A volte basta un sorriso, una parola appena. Ma non ne trovo ‘stasera. Ma piange un bambino da solo già lacrime amare ancora senza vergogna. Giovani donne, disfatte anzi tempo dall’ero e dai guai, si aggirano spettrali. Vecchi omosex cercano affetto, ma son pronti a ripiegare pure su di un rapporto mercenario. Si avvinghiano due cani randagi, bastonati dalla fame di sesso e di pane. Mima passi di danza un gruppo di sballati per una stupida provocazione, in cerca di un’identità qualunque, vittime anch’essi di questo postmoderno che ci fa tutti schiavi senza nemmeno sapere di esserlo. Le signore bene che han fatto lo shopping tornano a casa. Le colf, le assistenti, le prostitute, le disperate di ogni etnia, fra apocalittiche e integrate, portano sulle spalle la metà del cielo ammalato della globalizzazione. Milano meeting point, dove più s’avverte la negazione voluta, al tempo stesso, di identità e differenze. Dove stride in maniera sempre più tangibile il contrasto accanito fra il ricco, fra il povero, il privilegiato e l’escluso. Destinazione discoteche per operai infelici, disoccupati felici, impiegati a giacche e cravatte di poltrone e scrivanie di vecchie e nuove economie. Così, intanto, si è fatto tardi, nella grande città, notte fonda, come dentro di me.


 

-Ciao, Cosimino!
-Ginetto, come stai?
-Come devo stare?
-Stavo tornando a casa e ho pensato di chiamarti...
-Ho visto che eri tu...Hai fatto bene!
-Non dormivi, no? Hai risposto subito...
-Non dormivo, no! Dormo poco di notte...
-E che fai la notte...?
-La notte il cielo è rosso e io non so nulla...
-Tu sei felice e non sai di esserlo...
-Sì, certo...Sei felice tu, che non devi pensare a niente...
-lo ho già pensato a tutto. Mo’ aspettiamo solo che gli eventi si
compiano. Per quel che ci riguarda. E per quel che ti riguarda, o fai
qualcosa, o almeno non ci pensi più..
-lo non so nulla, nulla. Non capisco niente più, di giorno e di notte, sotto questo cielo rosso. Si accende la vita, per gli altri, e per me
si è fermata...
-Devi ripartire tu...
-Non ce la faccio...Non ce la faccio...
-Senti, se non si è fatta più sentire, significa pur qualcosa...Mi spiace
dirtelo, ma un motivo ci deve pur essere...
-Lo so...Cioè...Non lo so...
-Hai aspettato...Hai aspettato...Che cazzo hai aspettato?
-Ho aspettato di dimenticarla...
-Non mi sembra proprio che tu ci sia riuscito...
-Infatti, non mi sembra neanche a me...
-E allora cercala tu...
-Ma come faccio...Non so da dove cominciare...Non so proprio come
fare...
-Senti, hai soltanto paura di scoprire qualcosa di spiacevole per te. Ti sei
cullato nel sogno che fosse lei a cadere in volo fra le tue braccia, che
bastava aspettare. Adesso hai paura di perdere anche la speranza che,
sai, è sempre l’ultima a morire...Così ti stai lasciando morire tu, il tuo

entusiasmo, la tua volontà, il tuo essere migliore...Basta aspettare un cazzo! Chissà che cosa è successo...Forse hai ancora dei margini...Forse non più...Forse non ce ne sono mai stati...Ma adesso qualunque cosa è meglio di questo coma profondo neurovegetativo in cui ti sei sprofondato. Qualunque cosa, credimi, anche la peggiore delle ipotesi, sarà per te una situazione migliore. A costo di andare girando tutta quanta l’ Emilia - Romagna casa per casa, datti da fare! Muoviti...Chiedi...Rivolgiti a un’agenzia di investigazioni...All’ esercito! Chiama ‘Chi l’ha visto?’...Ma adesso fai qualcosa, e dai!

 

 

 

Domenica assolata e tranquilla, la città si sveglia pigramente. Non c’è molta gente in giro; oltre al fatto della mattinata della festività, bisogna considerare che gli italici ingegneri si sono puntualmente applicati ad edificare un altro ponte per procurarsi un supplemento di vacanze, approfittando dell’opportunità offerta dai primi di novembre.
C’è un certo tepore nell’aria, adesso che la nebbia si è alzata e fa piacere assaporare una delle ultime occasioni di clima quasi dolce, prima che sopraggiungano i rigori del lungo inverno di Milano.
Ho appena ritirato un voluminoso malloppo di quotidiani dall’edicola di piazza Duomo, dove li avevo prenotati ieri con molte raccomandazioni in proposito; ho avuto ampie rassicurazioni in proposito.
Mi avvio soddisfatto in Galleria, dove fervono le discussioni di rito, il dibattito è aperto, il tema di oggi è: arriverà a mangiare il panettone? E a me che me ne frega? A me importa soltanto del Lecce, che per tutti noi non è solo tifo, e tifo anche isterico, ma qualcosa di molto di più: una festa ogni volta che fa un gol, l’attaccamento alla terra d’origine, l’identità, la fede più speciale.
Guardo le vetrine delle librerie, rifletto su qualche titolo che potrebbe interessarmi, se avessi ancora tempo e voglia di leggere.
Una ragazza bellissima, alta e slanciata, si dispera nel volto ora piangente, perché il suo uomo le ha strappato il biglietto aereo per New York e “my ticket, my ticket!” ripete, mentre quello le grida di non andarsene e di restare insieme a lui, “stay with me forever!”.
Mi tolgo la giacca e inopinatamente mi rituffo sul piazzale della cattedrale in maglietta, la Lacoste di quest’estate, al sole falsato dai miei mitici Ray Ban Wayfarer, fra i turisti per caso, i piccioni, i passanti, i pittori, i fotografi e gli ambulanti delle bancarelle, dove acquisto una tartarughina portafortuna, che mi annodo col nastrino nero come braccialetto introno al polso destro, salvo poi togliermelo subito dopo, vergognandomene.
Vado alla Motta a prendere un caffè. Seduto ai tavolini del primo piano, a pensare.
Basta, ho già deciso.
Ho aspettato, non è che non ho aspettato. Ma non è successo niente. Il destino ha deciso così? Se non è successo niente è perché non doveva succedere niente? Mi permetto di aggiungere i punti interrogativi, in questo momento, sostituendoli a quelli esclamativi. E poi, poi... Ci ho provato, non è che non ci ho provato. Ma non sono riuscito a dimenticarla. Mi manca. Mi manca come il pane a un affamato, come l’acqua a un assetato, come tutto a chi non ha niente.

Ormai sono convinto che la mia vita abbia un senso solamente se condivisa con lei e il mio futuro una dimensione solamente se costruito con lei, giorno per giorno.
Non ci sono altre soluzioni.
Io, grazie a lei, ho ritrovato voglia ed entusiasmo di pensare e di agire, di progettare e di realizzare.

Soltanto grazie a lei ho superato le devastazioni del passato, i fallimenti, gli incubi, le ansie e le inquietudini.
Solamente quando sono stato insieme a lei, ho avuto voglia di cose belle, di cose grandi.

 

Di ritornare a correre.
Di tagliare traguardi, senza fiato. Di lottare, di vincere.
Mi ha dato modo di ritrovare un senso.
Se no, senza lei, che cosa mi importa più?
E sarà pure sbagliato, ma è così...
Mio figlio è già grandicello e farà comunque da solo, come è giusto che sia e si dovrà costruire il suo destino con le sue forze, contando su quello che ha avuto e che io ho saputo e potuto dargli.
I vecchi progetti del Commendatore non mi interessano più.
Quelli nuovi di Cosimino sì, perché finalizzati in sinergia con lei al raggiungimento del benessere e dell’importanza.
Senza di lei, ritornerei a sopravvivere stancamente, ad accumulare esperienze negative, a registrare il ripetersi di situazioni deleterie e sempre più incancrenite, fino all’epilogo irreversibile.
...No, la ritroverò, guardo e accarezzo la mazzetta del quotidiano, la ritroverò, la devo ritrovare...

 

 

 

Come il passato condiziona l’amore presente? E’ il tema di oggi. Ho aperto il dibattito in soliloquio passeggiando per via Manzoni e via Montenapo. Ho tenuto un’accesa assemblea con me stesso seduto ai tavoli vicino alle vetrine che guardano a Piazza Duomo, dove ti danno un foglietto e, a seconda delle consumazioni che fai, ti segnano numeri in codice corrispondenti al costo che registra la cassa al conto finale.
Mi sono preso panini, acqua brillante, caffè, gelato, tutto e insieme allo scontrino ho strappato all’uscita ogni dubbio residuo.
..In fondo, non significa niente che non si sia fatta più viva...

Io neppure l’avevo cercata, eppure...

Forse non ha potuto...Forse non ha voluto...Forse avrei dovuto farlo io...

Lo farò ora.

Volevo mettermi in ordine le idee. Avere tutto chiaro. Adesso è tutto chiaro.
Non posso più aspettare gli eventi, così non accadrà mai nulla. Per quanto io creda di non poter risolvere nulla da solo, posso però provarci, a smuovere la situation, per verificare che cosa accadrà così. E’ tutto per me...La voglio! Day by day...Stay with me forever! E ammesso che poi debba finire, certo non può finire così. Ma che possa finire, oppure che possa essere già finita, non voglio neppure pensarci.

 

 

San Siro è il quartiere di Milano che più mi piace. San Siro non è solamente lo stadio, che, fra l’altro, adesso si chiama Giuseppe Meazza, ma un’intera zona, fatta di altri complessi sportivi, come il trotter, l’ippodromo e il palasport, ma anche grandi strade piene di auto e palazzi, viali alberati, giardini, palazzine e villette.

L’ho girato in lungo e in largo, fra i parcheggi stracolmi a perdita d’occhio durante la partita.
Solo.
Una certa nebbiolina cominciava già a profilarsi.

Non avevo voglia di andare a casa.

Ho camminato a lungo per il centro, fino al Castello Sforzesco e da lì, sempre a piedi, sono tornato davanti al Pirellone, dove avevo lasciato la Twingo.

Per ore, mi sono portato appresso la mazzetta dei quotidiani. Potevo farlo anche subito, ma volevo essere sicuro, volevo avere tutto chiaro dentro di me: lo farò domani.

Ho mangiato qualcosina e bevuto un’altra acqua brillante al bar dell’ Alemagna, barocco e imponente nel suo interno, da cui si guarda dilato la monumentale stazione Centrale.
Ho accarezzato i giornali, leggendo, giacché c’ero, i titoli delle prime pagine, ma soprattutto sottolineando con l’evidenziatore i numeri di telefono delle varie redazioni.

Loredana, Loredana Ferrari lavorava in un giornale, ne era la telefonista, no? Lo stesso quotidiano di suo cognato, il giornalista che l’aveva fatta assumere, portandosela da Modena la mattina e riportandosela la sera. lo questa cosa qui non l’ho capita bene, da come me l’aveva accennata, anzi, rimossa, con le sue parole, ma evidentemente di lei non ho capito bene tante cose.
Comunque, di questo sono sicuro...Ho qui tutte le edizioni, anche quelle provinciali, di tutti i quotidiani che si pubblicano in Emilia Romagna...Domani telefonerò a ogni redazione esistente nelle varie città.

Sentirò chi mi risponderà al centralino.

Chiederò.
Ho ripiegato religiosamente i quotidiani, li ho posati ordinatamente sul sedile posteriore della Twingo, che, docile, ha obbedito ai comandi e mi ha portato fuori dal piazzale della stazione Centrale.
Ho accarezzato l’acquamarina della Contessa, che ho tenuto sempre sul cruscotto della macchina durante tutto questo tempo.

Via Melchiorre Gioia cominciava a popolarsi delle sue e dei suoi abituali abitanti notturni e dei loro indecisi clienti.

Presenze spettrali, nella nebbia ora decisa.

L’ho percorsa in lungo e il largo fino a quando non mi ha fatto paura.

Ho chiuso l’autoradio e ho cercato di non fumare più, tornando a casa.

Tra il fumo delle sigarette, dentro e la nebbia sempre più convinta della notte, fuori, la visibilità si era fatta davvero precaria.

Meno male che mancava poco.