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COS’E’ QUELLA SENSAZIONE?

 

“L’ aroma dei pini, l’ arsura del caldo secco e quel profumo dell’ aria, che viene dal mare, che viene da lontano, dall’ oriente, particolare, particolarissimo, che soltanto qualche volta si sente proprio così, ma che, se si sente, si sente soltanto a Otranto” 

 

 

Cos’è quella sensazione che ti prende quando la macchina ingoia sotto di sé le strisce bianche dell’ autostrada una dopo l’altra in una successione sempre più rapida, e la lancetta del contachilometri arriva in fondo, rimbalza e ritenta di passare oltre, invano, mentre senti di più i battiti del cuore, che il rumore del motore, e le lucine verdi dell’ autoradio e degli strumenti del cruscotto diventano di colpo raggi laser?

 

Ho riposto nel borsone le poche cose che mi ero portata da lui all’inizio della bella stagione, bella si fa per dire: i trucchi, le scarpe, le ultime illusioni; gli ho lasciato il telefonino dell’ultima generazione che mi aveva regalato; gli ho preso la BMW che non mi aveva mai voluto dare, neanche far provare per un giro, lasciata aperta nel garage con le chiavi dentro.

 

Ho messo in moto, sono scesa, ho aperto e richiuso il cancello della villetta, sono risalita e sono andata via.

Dove?

Non lo so, ma non importa; da qualche parte, è lo stesso; quel che importa è andare via.

 

Mi sentivo già meglio. Non avevo più la bocca amara e l’alito pesante di poche ore prima, appena sveglia, dopo una notte senza pace rovinata dagli incubi, nonostante la doccia avesse dato un sollievo soltanto momentaneo alla sensazione di spossatezza e di appiccicaticcio che mi aveva perseguitato negli ultimi giorni passati rinchiusa là.

Quest’afa opprimente, questo cielo piombo plumbeo, ammalato di solitudine, se non di disperazione, senza sole, grosse nubi a fare vai e vieni in chiaroscuro, le piogge improvvise forti e dense.

 

Una piadina al prosciutto, una coca e un caffè, seduta al tavolino fuori del bar dello sport, i miei troppi pensieri appresso alle spire di fumo delle mie troppe sigarette. La via Emilia col solito traffico, nervoso, per la pioggia, sopravvenuta nel frattempo con disarmante regolarità, di camion lenti col loro carico di materiali da costruzione, di T.I.R. veloci di merci, di auto di residenti nei paesi vicini alle città che attraverso una dopo l’ altra nei centri deserti al primo pomeriggio del primo sabato di agosto.

Campagne deserte, case e palazzi con le serrande abbassate; i vecchi in piazza a giocare a scopone; due battone stagionate in attesa svogliata di improbabili clienti sotto gli alberi di una stradina laterale di periferia; un ragazzo e una ragazza, incredibilmente sporchi e fradici sotto il peso degli zaini da campeggio, con in mano un pezzo di cartone con su scritto a lettere nere grandi quanto incerte RIMINI; un’ utilitaria da cui si affaccia a un semaforo rosso una giovanissima signorina pesantemente truccata; un meccanico intento a guardare con aria perplessa dentro al cofano spalancato di una vecchia Mercedes.

 

 

 

A Bologna, dove ha smesso di piovere da pochi minuti, vicine, sui viali lunghi e diritti della circonvallazione, stanno le slave, volgari; distinti e distanti sembrano invece i passanti, sotto ai portici della zona dell’ università. Prendo un altro caffè, a un bar elegante del centro. C’ è una coppia di mezza età seduta a un tavolino: l’uomo, i capelli corti e bianchi, il volto gioviale, ma come annoiato; la donna prosperosa e certo ancora piacente, nel suo delizioso abitino, si guarda attorno furtiva, come contrariata. All’ ingresso, un ragazzo si sporge ansiosamente fuori dalla vetrata; gli incrocio gli occhi d’ un azzurro immenso che risaltano sul barbino di due giorni che finisce a pizzetto appena accennato sul mento. Un vecchio legge perplesso “Il Resto del Carlino” e fra le pagine spiegate a due mani viaggia verso mondi per lui ormai così lontani. Il barista impettito tiene per tutto il tempo costantemente lo sguardo basso sulle mie gambe e mi insegue con la vista anche quando risalgo sulla macchina lasciata davanti alla vetrina, sospirando. Sospirando, schiaccio sull’ acceleratore, seguendo la direzione della statale, seguendo i miei pensieri.

 

Un giorno bruttissimo chiusa in clinica, dall’ alba al tramonto. Complicazioni fortunatamente rientrate, dolori a parte, nei venti giorni, allucinanti, chiusa in quella stanza, il telefono staccato, il telefonino con la batteria strappata.

-“Vai via! Vai via!”- ripetuto fra grido e implorazione quando ogni tanto veniva a trovarmi, o, più semplicemente, avrebbe voluto rientrare in quella che era pur sempre casa sua.

Stesa sul divano, mi facevano compagnia antibiotici e tranquillanti, ad assecondare le frasi del dottore: “Signorina, si cauteli! Non può mettersi subito in viaggio! Si curi e si riposi per un po’! Aspetti di sentirsi davvero bene!”. Una pila di fotoromanzi ad assecondare la speranza, o illusione, che la parola amore, dunque, esista ancora.

Fette biscottate e succhi di frutta mi toglievano quel poco di fame che mi veniva; il ventilatore senza pausa mi toglieva nelle immediate vicinanze il cumulo del caldo asfissiante; la televisione perennemente accesa senza pure che nessuno la guardasse mi toglieva la paura che il mondo fosse intanto crollato addosso alle mie spalle.

 

La BMW fa benzina, il rosso lucido della carrozzeria lavato dalla pioggia. Rimini, lo annunciano le lettere bianche su sfondo azzurro di un cartello stradale di indicazioni, è a pochi chilometri e il traffico monta di minuto in minuto, fra residenti, pendolari e turisti.

E quel mio amico di Torino, l’ altro giornalista che voleva venire a trovarmi, a incontrarmi, cioè, come eravamo rimasti d’ accordo, dopo esserci conosciuti al telefono...Come si chiama? Non mi avrà potuto trovare in nessun modo...Ma sì, che importa, ormai...Quando sta per farsi sera e verso la notte del primo sabato di agosto già impazza la città degli alberghi e delle discoteche. Se ci entro, ci rimango intrappolata. Meglio prendere l’ autostrada.

 

 

 

Sono Loredana...Sto meglio, grazie...Allora, parto adesso...Sabrina tanto rimane tutto il mese...Eravamo già rimaste d’ accordo così...Ma sì, stia tranquillo...Vedrà che a settembre tornerò in formissima...Lei è sempre tanto caro con me...Va bene, va bene, mi faccio sentire...Arrivederci...”- questa mattina, telefonando al direttore.

 

Guardo la locandina delle partenze così dette intelligenti presa prima al casello: in corrispondenza di ieri, oggi e domani c’ è un grosso buco nero.

 

Ciao...Sì, sto bene...Non sono sparita dalla circolazione...Sono stata male…Il peggio è passato...No, non sono partita, cioè, sto partendo adesso...No, non vado a trovare mia sorella...Non lo so, dove vado...Da qualche parte andrò...E tu, non la raggiungi, tu? E le bambine? Me le saluti tutte e due? Non ti preoccupare, vi chiamo io...Non lo so quando tornerò...Ma che dici? Che stai dicendo? Uffa, guarda, sto partendo! Te l’ ho detto, o no, che sto partendo? Sì, adesso...Adesso! Ciao!”- questa mattina, telefonando a mio cognato.

 

L’ autostrada, affollata, adesso, nella prima oscurità, con le luci dei fari delle auto guarda a sinistra la statale e poi, appena più a lato ancora, senza riuscire a vederlo, il mare.

 

Cos’ è quella sensazione...?

 

“...Stiamo trasferendola sua chiamata alla segreteria telefonica.. .Un istante, prego...”

 

“Vaffanculo! Hai capito, o te lo devo ripetere? Vaffanculo! E non ti provare a cercarmi! Non ti preoccupare, la macchina te la farò riavere, in un modo o nell’ altro...Ma niente altro, niente altro! Ah, grazie per aver reso la mia vita un inferno! Per me sei morto, sei un cadavere!”- questa mattina, telefonando a lui.

 

Vent’anni dopo. Un’altra estate, dopo vent’anni. Era quella della maturità. Era quella dell’anno in cui morirono i miei genitori, poveri! Che colpo! Dio, di quante morti è fatta la vita...Me lo sentivo: c’era la nebbia, andavano a lavoro, con il vecchio Maggiolino di papà e io a scuola, stranamente nervosissima, vidi due stelle che esplodevano negli occhi miei e il toast che stavo mangiando in quel momento mi diventò di ghiaccio...

Era già agosto quando, qualche mese più tardi, io e mia sorella andammo in vacanza, in campeggio, col camper di certi nostri zii, al Sud, a Otranto...Come si chiamava il campeggio? Ammesso che esista ancora...

 

 

 

E se...Già! Perché no?!? Ma sì, proprio là devo arrivare adesso, adesso che tutto è finito, davvero, là dove tutto era incominciato...

 

Mi ricordo le roulotte, le tende, i Tedeschi, l’ aroma dei pini, l’ arsura del caldo secco e quel profumo dell’ aria, che viene dal mare, che viene da lontano, dall’ oriente, particolare, particolarissimo, che soltanto qualche volta si sente proprio così, ma che, se si sente, si sente soltanto a Otranto.

Una mattina me lo trovai davanti all’ ingresso del campeggio, mentre stavo per andare a fare una passeggiata fino al mare...Mi colse alla sprovvista. Non ci pensavo proprio in quel periodo a certe cose. “Tutto esaurito!”- mi disse, dal finestrino della Renault 4 rossa (ha sempre avuto auto di quel colore, in seguito, a cominciare, appunto, dalla prima) , e senza curarsi del mio estemporaneo-“E a me che me ne frega?”-cominciò a raccontarmela: che era appena arrivato dalla Grecia, che non voleva tornarsene già a casa, che era di Modena - Toh, guarda, io sono di Parma!-  che suo padre aveva un’ azienda di importazioni ed esportazioni, che era al primo anno di economia e commercio, che...

 

La sera...La discoteca si chiamava..? Ammesso che esista ancora...Ballammo tutto come se fosse stato un lento, sempre baciandoci, senza staccarci nemmeno per un secondo, “No woman no cry”, me la ricordo proprio bene- ed è stranissima- mi pare di risentirla adesso, e diventò la nostra canzone...Un presagio, una terribile, precisa profezia...

Chissà per quanto rimanemmo avvinghiati, nonostante il caldo afoso, fermi, immobili, nonostante la musica, io stretta da quei muscoli che sapevano di Coppertone, le mie mani fra i suoi capelli brillanti di biondo acceso dal sole, invece poi ingrigiti dal tempo e dalla cattiveria, ma allora come se niente e nessuno dovesse mai più separarci..?

 

Ma sì, andiamo a rivedere...Andiamoci subito...Tanto non ho per niente sonno, almeno per adesso...

Non ho ancora sonno, o, forse, mi sta venendo? 02.43 dal laser verde del cruscotto. Andiamo avanti, mi riposerò un po’ fra due o tre autogrill...

 

Vent’ anni fa...Ero una bambina, eppure ero come sono adesso...Non solo fisicamente, purtroppo...Forse devo ancora diventare grande...Sì, è vero, devo ancora crescere...Devono cambiare in me delle cose...

 

Mi piacciono gli autogrill, mi piacciono i bar sulla strada, anche là dove ti servono il caffè nel bicchierino di plastica, coi giornali, vecchi e nuovi, accatastati alla rinfusa, finanche i gabinetti dall’ odore pungente...Mi sono parcheggiata in una radura e credo di aver dormito per un po’, un asciugamano buttato addosso...

 

 

 

 

Per un po’, il tempo sufficiente a riempirmi di nuovo di incubi...

 

C’ era mio cognato Giorgio che mi diceva fra i sospiri, con la voce roca, vomitevole: “Ti ho fatto studiare...Ti ho trovato un lavoro... Per anni ti ho portato la mattina e ti ho riportato la sera...E poi hai smesso, e io ti sono stato sempre vicino...E quando, appena poco fa, hai voluto ricominciare, t’ho fatto ritornare...E sai perché l’ ho fatto, io? E sai che cosa sto facendo adesso?”.

 

Io come al solito facevo finta di niente, come se non me ne accorgessi nemmeno, eppure sbagliavo, certo, perché facevo il suo male, così, non il suo bene, con quei secondi, per lui come se fossero la sua valvola di sfogo, per riportare poi subito dopo tutto alla normalità più apparente, senza che io avessi mai trovato la forza per dire basta, quella che ho trovato invece adesso, giacché mi ci sono messa, a fare pulizia etnica.

 

A cominciare da lui...

 

E poi c’ era lui, appunto, Gianni, che mi tirava uno schiaffo violento e mi scalciava a terra, senza che avessi la forza di rialzarmi, e mi urlava che dovevo fare così, come diceva lui, dovevo fare sempre come diceva lui, e io che mi rialzavo e lo seguivo…

Ma se l’ ho seguito per vent’ anni, adesso sono arrivata al capolinea della storia.

 

Io penso che poche cose diano soddisfazione nella vita come quando la mattina, appena sveglia, ti accendi subito la prima sigaretta e il fumo della Marlboro, aspirato voluttuosamente, ti dà la carica, prendendoti in testa, prima che in gola e ti rimette subito in circolo, ti sintonizza su un altro giorno, seguita a ruota dal caffè, bollente, forte, denso, stretto, profumato, che ti dà la spinta decisiva...

Dopo Foggia, alla luce già forte, ho schiacciato tanto sul pedale dell’acceleratore, che davvero la lancetta del contachilometri pareva dovesse schizzare fuori dal quadro.

 

...La spinta decisiva...

 

E’ la prima volta che non mi sento scivolare addosso gli eventi, ma che sento di prenderli io...Come se fossi diversa, finalmente libera.

Dopo due “onda verde” ero a Bari, dove finisce l’ autostrada e dove ho pagato il pedaggio, ho chiesto informazioni e ho ripreso a correre, verso quel profumo particolare, particolarissimo, che chissà se potrò respirare di nuovo...

 

A Otranto voglio starmene da sola per un po’. Per ricaricarmi. Per rigenerami.

Per ripulirmi.

Sputerò sullo specchio della mia anima, per cancellare le macchie del mio passato.


A che ora potrò arrivare? mah, difficile dirlo, pensavo, se poi non so più bene neanche a che ora sono partito e intanto sono ancora qui, a Melegnano, incolonnato nel grande esodo, grande si fa per dire, ma vuoi mettere il tempo che ho perso ‘stamattina dal benzinaio per tutti i controlli del caso alla mia povera Bestiona, povera veramente, che porta con sé, ammaccata, provata, marocchina, quale parte integrante, un’ icastica rappresentazione dell’incuria del tempo e degli uomini, perché poi c’è sempre qualcosa di triste, di passato, di perduto, in queste poche macchine grosse di cilindrata, ma povere di valore, ancora circolanti, non si sa per quanto, con quei tratti soltanto più vagamente nobili, ricchi, alteri, ma oramai arroccanti nell’ ultima corsa verso il capolinea, come speriamo non succeda invece adesso fino a Otranto, es patrida gaian, in questo inizio ritardato al primo sabato d’ agosto dell’ estate, di quest’ estate, di quest’ estate da mare, di quest’ estate d’ amare, di quest’ esta te, di questa, mai come adesso tanto in ritardo, ché, da bravo factotum di fiducia, ho aspettato pure che partisse il Commendatore, tutte le cose di lavoro fatte, per il soggiorno abituale con la sua signora a Cortina, che poi come si fa a raggiungere tutti gli anni ad agosto, viceversa io tutti gli anni ad agosto a Otranto, cioè poi dai miei, da sempre, da quando me ne andai, senza nemmeno spago sulla mia valigia, mannaggia quanti anni son passati, Cristo, e quanta acqua è passata sotto ai ponti, per ritrovarmi solo, senz’ arte, né parte, a vivere giorno per giorno, che è bello pure, se oramai non ne fossi completamente stanco, senza poter più progettare il futuro, e pure la logica del “domani è un altro giorno, si vedrà” che vacilla, sotto ai colpi delle cose negative, anziché di quelle positive, delle difficoltà ininterrotte, oh, non ne posso proprio più, non ne posso, e della solitudine affettiva, di questa mia immensa solitudine che m’ha levato non dico ogni passione, e ogni entusiasmo, ma pure ogni voglia oramai, ché un figlio già abbastanza grande per fare da solo, per il quale ho continuato a fare il padre non per quanto dovuto, ma per quanto potuto, e che mi vuole bene, e mi vede come punto di riferimento, non può bastare, no, e avessi almeno una ragione, che ne so, un motivo, ma pure un pretesto, ma pure un’altra illusione...no, niente, e hai voglia a mettersi in ordine le idee, già fatto, hai voglia a cercare di essere attivo, niente, non rimane che la virile e consapevole attesa del destino, di quello che riservano gli eventi, e basta, non devo pensare a nulla, non devo, vediamo che succede, quello che, nei fatti, e adesso andiamocene pure quest’ estate, per quest’ anno non cambiare, stessa spiaggia, stesso mare, come direbbe quel gran genio del mio amico, speriamo solo di arrivarci, che la strada sia amica alla Bestiona, ex Audi di lusso, e se non chiedo troppo che sia capace pure a ritornare, ma l’importante è arrivare, poi la farò vedere da Cosimino, chissà come sta, il solo capace, se pure possibile, di rigenerarla, come pure, caso mai, avrei bisogno di rigenerarmi anch’ io, caso mai, poi vediamo che succede, intanto non ci pensiamo, strada facendo, che però è tanto lunga, quanto difficile rigenerarmi a nuova vita, ‘mo basta però, e basta coi dolori del non più giovane Gino, basta proprio, malgrado stia correndo a più non posso, corro, ma dove corro, almeno a finire quest’ altro lungo viaggio, da solo, insopportabile, che non so neppure come finirà, ma speriamo almeno con quel profumo che si sente, quando si sente, soltanto a Otranto, certe mattine, che sa di oriente, di lontano, di misterioso, quasi indicibile, altro che difficile, dire, pensavo, a che ora potrò arrivare.