Zdenek Zeman
L’allenatore - intellettuale

Il calcio era ed è stato per tanto
tempo soltanto uno sport, quello più entusiasmante, quello più
seguito e unanimemente considerato il gioco più bello del
mondo. Dopo un secolo, specie negli ultimi anni, oltre a
rimanere per fortuna tutto questo, però, si è andato
trasformando rapidamente ed intensamente ed è diventato
spettacolo e industria, un fenomeno anche economico assai
rilevante.
GIOCO,
SPORT, SPETTACOLO E INDUSTRIA
Oggi muove interessi ingenti,
oltre ad accendere la passione popolare, il tifo, che fa di ogni
“sportivo” un sostenitore di una squadra in cui identifica la
propria importanza, per ragioni campanilistiche, o
nazionalistiche, o senza ragione, così e basta.
I biglietti, il turismo, i diritti
televisivi, il vorticoso giro delle scommesse, il così detto,
con una parola impronunciabile e pure difficilmente scrivibile,
che indica lo sfruttamento del marchio a fini di produzione
industriale, per lo più di oggetti e capi di abbigliamento,
“merchandising”, la pubblicità collegata e tanto, tanto altro
ancora
( che so? L’ordine pubblico, per
esempio, oppure l’editoria: soltanto in Italia ci sono ben
quattro quotidiani sportivi, uno dei quali dedicato ad una sola
squadra ) fanno del calcio un, “il” fenomeno più rilevante dei
giorni nostri e l’unico, l’ultimo forse, capace di muovere in
maniera considerevole, a gruppi di milioni e milioni di persone
alla volta, le masse.
A fronte di frotte di giornalisti,
commentatori, e sedicenti esperti, della carta stampata e di
tutti gli altri mezzi di comunicazione di massa, ora anche dei
telefonini ( una delle cose belle del calcio è che di calcio
possono parlare tutti e tutti con più o meno uguale
considerazione e rilevanza: un’analisi di una partita fatta
dagli avventori di uno dei più malfamati bar di Caracas vale
grosso modo quanto quella fatta dei più autorevoli giornalisti e
dei migliori tecnici del settore, con buona pace di
chicchessia!) sono poche le ricognizioni che si sono levate ed
elevate al di sopra di questo mondo.
Pier Paolo Pasolini, che tifava
per il Bologna e giocava da ala destra, come si chiamava un
tempo quel ruolo, amava il calcio, per la sua natura
squisitamente popolare.
Umberto Saba scrisse un paio di
belle poesie dopo aver visto le partite della sua Triestina.
Niccolò Carosio ne fu il cantore
sommo per radio e per televisione, Gianni Brera sulle colonne
dei giornali.
Ultimamente, per quanto confinato
nel recinto angusto della cultura accademica, qualche sociologo
ha individuato nell’istinto bellico di sopraffazione, ogni
partita come una battaglia, il calcio come metafora della
guerra, quell’antica festa crudele, la ragione profonda e
qualche scrittore si è spinto a illustrare le ragioni della
bellezza, del piacere, del godimento che il calcio
prepotentemente scatena.
Il calcio ha poi i suoi eroi, i
calciatori, i grandi campioni, Pelé e Maradona i più grandi del
passato e i tanti del presente e del futuro.
Con una delle sue inscindibili e
irrisolvibili contraddizioni, il calcio, che è gioco di squadra,
viene poi spesso deciso dal singolo, che per una ragione o per
l’altra si eleva e fa la differenza.
C’è poi, oltre alle tante altre
più o meno importanti, che fanno una squadra, dai preparatori
atletici, agli osservatori, dai dirigenti ai medici, un’altra
figura fondamentale.
L’allenatore.
L’ULTIMO
RIBELLE
Il calcio di per sé è un gioco
semplice nelle sue dinamiche. Durante i novanta minuti della
partita, senza usare le mani, portiere a parte, dieci giocatori
devono costruire un’azione, tenendo palla, con ciò impedendo
anche l’iniziativa agli avversari, per “ficcarla” in un modo o
nell’altra nella porta avversaria e segnare, per vincere, almeno
un gol in più degli altri.
Semplice? Mah…
Qualche anno fa, capitato per caso
in tribuna stampa - durante un incontro del campionato della
serie A, rimasi basito nel constatare che c’erano ben due
colleghi dell’agenzia Ansa a seguire l’incontro; uno annotava le
azioni, in cronaca, l’altro seguiva tutto il resto: tattica,
disposizione, sostituzioni, ammonizioni e quant’altro.
E’ ormai umanamente impossibile
per una persona sola rendersi e soprattutto rendere conto di
tutto quello che succede durante una partita.
Negli ultimi anni, soprattutto per
le evoluzioni superiori delle tattiche di gioco, al di là degli
aspetti propriamente tecnici individuali, in realtà il calcio è
diventato oltremodo complicato.
Poi però magari succede che, con
tutte le tattiche e tutte le tecniche di questo mondo, una
partita si decide perché c’è un rimbalzo anomalo del pallone che
favorisce l’uno anziché l’altro, o perché un tiro che sbatte sul
palo finisce lo stesso in porta, anziché schizzare fuori: ma
questo rientra nelle contraddizioni del calcio, nei suoi misteri
gloriosi, di cui l’imprevedibilità e la casualità sono i
maggiori e i più affascinanti.
Rimangono comunque la complicata
gestione della squadra e la complessa organizzazione del gioco,
di cui è responsabile l’allenatore.
Negli allenatori di calcio ci sono
stati e ci sono tanti personaggi per tante ragioni affascinanti
e assai amati, seguiti, anche discussi.
Ma ce n’è uno che più degli altri
è da molti amato, con straordinaria intensità, di là della
squadra per cui di volta in volta lavora e da qualche altro
ferocemente detestato; uno solo che oltre a essere un tecnico
del calcio è, partendo dal mondo del calcio, anche- direi:
soprattutto- un intellettuale, non solo, ma uno degli ultimi
intellettuali rimastici, capaci di prevedere, illuminare,
affrontare le questioni, le dinamiche, le situazioni sociali.
“La
grande popolarità del calcio nel mondo non è dovuta alle
farmacie, o agli uffici finanziari, bensì al fatto che in
ogni piazza, in ogni angolo del mondo c’è un bambino che gioca
e si diverte con un pallone tra i piedi. Ma il calcio oggi è
sempre più un’industria e sempre meno un gioco”

Zdenek Zeman nasce a Praga, la
capitale dell’allora Cecoslovacchia, nel 1947.
Il papà era medico, la mamma
casalinga, ma per il suo destino è fondamentale lo zio materno,
Cestmir Vycpalk, che trasmette al piccolo Zdenek la passione per
il calcio e poi, appena maggiorenne, lo invita in Italia, a
Palermo, dove egli nel frattempo si era trasferito per
continuare al meglio la carriera di allenatore, che lo aveva
portato, anche se per un breve periodo, niente di meno che alla
Juventus.
E’ il 1968, anno fatidico del
nostro passato remoto, in cui nel mondo si susseguono eventi
straordinari, fra cui, in agosto, l’invasione della
Cecoslovacchia da parte dell’Urss, che stronca così con i carri
armati la così detta “primavera di Praga”, il tentativo di
libertà e di democrazia del leader Alexander Dubcek.
A fronte di tali drammatici
accadimenti, Zdenek Zeman decide di rimanere in Italia. Dopo gli
studi liceali compiuti in patria, si iscrive all’Isef,
l’istituto superiore di educazione fisica di Palermo, dove si
laurea con il massimo dei voti con una tesi- attenzione: è
importante- sulla medicina dello sport. Ottiene poi pure la
cittadinanza italiana.
La naturale passione per
l’allenamento, corroborata dagli studi fatti, trova sbocco nelle
prime esperienze che compie giovanissimo in società
dilettantistiche siciliane, dai nomi altisonanti e strani, come
Cinisi, Misilmeri, Esacalza.
A differenza della quasi totalità
degli altri allenatori, non fa il calciatore, il che è un grosso
ostacolo per poter conseguire il riconoscimento ufficiale da
allenatore professionista, che si ottiene mediante corsi di
vario livello gestiti dalla Federazione Italiana Gioco Calcio a
Coverciano.
Ancora una volta sarà decisivo lo
zio, che riesce a farlo iscrivere al super-corso ( il sospirato
“patentino” arriva nel 1979 ) e poi gli fa avere un posto
presso le squadre giovanili del Palermo, che Zdenek allena come
propria sudata e preziosa gavetta per alcune stagioni.
Lo chiamano a guidare il Licata,
la squadra della grossa città siciliana, in cui Zeman fa
arrivare alcuni calciatori che aveva scoperto, per formarli e
adattarli al suo gioco, caratteristica questa che gli rimarrà
decisiva, per ottenere i migliori risultati, come pure quell’altra
di avere tempo, almeno un paio di stagioni, per plasmare una
squadra, capace di interpretare al meglio il proprio credo
calcistico.
Già, il suo gioco, il proprio
credo calcistico: il mitico modulo 4-3-3, che segna la
disposizione in campo dei giocatori e li predispone ad una
spiccata vocazione offensiva, all’attacco, perseguita con azioni
effervescenti, spumeggianti e incisive; con triangolazioni
semplici e rapide; con la vicinanza costantemente mantenuta fra
i reparti, la così detta “squadra corta”, capace in pochi
secondi di capovolgere l’azione e arrivare nella porta
avversaria.
Licata è la prima grande
opportunità nel calcio professionistico, sia pur minore e Licata
è la definitiva messa a punto della organizzazione, che
diventerà irrinunciabile.
Non se la fa sfuggire.
Il 1985 è “L’anno di Zeman”, come
si intitola il primo libro che gli viene dedicato da due
giornalisti siciliani, Gaetano Collura e Francesco Pira, che
celebrano la vittoria nel campionato di C 2.
Venti anni dopo, gliene dedicherà
un altro Stefano Marsiglia: “Zeman, l’ultimo ribelle” ( edizioni
Malatempora ).
Anche lui è pronto per un salto di
categoria.
Allena in serie B, anche se con
esiti altalenanti, fra Foggia, Parma e Messina.
E’ il 1989 quando lo richiamano a
guidare il Foggia, appena ritornato in serie B.
Non sarà uno solo: cominciano gli
anni di Zeman, quelli della sua vera affermazione, con gli esiti
del suo credo calcistico migliori, rimasti insuperati.
A Foggia gli inventarono un
neologismo, rimasto nella lingua ancora oggi: “zemanlandia”, la
favola di un gioco divertito e divertente, l’affermazione del
calcio-spettacolare, che entusiasma e infiamma, diventata
realtà.
Cominciano a Foggia gli anni di
Zeman, gli anni di zemanlandia.
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Non
sappiamo se vera o inventata, è rimasta nella memoria degli
“addetti ai lavori” del calcio l’ormai mitica frase - “E mo’
lo compriamo! Quanto costa questo Amalgama?” – attribuita a
un Presidente leggendario, morto anni fa.
Diventato proprietario della squadra della sua città, senza
essere un conoscitore dell’ambiente calcistico e, probabilmente,
anche di altre cose, e volendo con ciò fare immediatamente bella
figura, chiamò a rapporto allenatore e tecnici e diede loro
carata bianca per la campagna-acquisti dei calciatori, di cui
egli avrebbe generosamente sostenuto le spese di tasca sua.
Detto
fatto. Ma, nonostante ciò, cominciato il campionato, i primi
risultati furono oltremodo deludenti.
Allora
il povero Presidente richiamò a rapporto allenatore e tecnici,
per chiedere loro conto del fallimento, nonostante li avesse
accontentati in tutto e per tutto acquistando, con notevole
esborso finanziario, tutti i calciatori che avevano voluto.
“Ma
come? Vi ho comprato tutti quelli che volevate, ho speso un
casino di soldi e perdiamo sempre!”- sbottò affranto, e
rimase a guardarli.
Allora
quelli farfugliarono qualcosa, fintanto che l’allenatore
concluse le presunte giustificazioni, spiegando che bisognava
aver pazienza, perché c’erano sì i giocatori voluti, ma mancava
ancora l’amalgama.
Al che
il Presidente, credendo che gli avessero segnalato un altro
calciatore, come rincuorato, allargò le braccia e pronunciò
quella frase entrata nella leggenda.
ZEMANLANDIA
Ecco, l’amalgama non si può
comprare, l’amalgama, fondamentale per tutte le squadre, ma
soprattutto per quelle di Zeman, bisogna costruirlo, col tempo,
con l’esperienza, con la pratica, con l’educazione, al di là dei
risultati immediati.
A Foggia Zeman trovò le condizioni
per lui ideali, perciò l’esperimento riuscì con esiti eccellenti
quanto straordinari e più poteva organizzarsi e andare avanti,
più si perfezionava e riusciva meglio.
1) A monte, la sicurezza di avere
come base di partenza un ambiente conosciuto e stimato, in cui
essere conosciuto e stimato, che permetta di operare senza
fretta e senza condizionamenti.
2) La possibilità di andare a
scovare non i grandi nomi, che in una piccola piazza, fuori dai
potentati economici, non sono possibili, ma i talenti delle
serie minori che abbiano sia le caratteristiche tecniche per il
suo tipo di gioco, sia la volontà di sacrificarsi per potersi
affermare.
3) L’opportunità di infondere a
giocatori di questo tipo il proprio credo calcistico come una
fede.
4) L’organizzazione della
preparazione atletica fin dal ritiro pre-campionato, che prevede
carichi di lavoro pesantissimi, per altri calciatori e altri
ambienti inaccettabili e la tranquillità di poterla gestire con
continuità.
Non mancarono i risultati. Con
quella squadra di perfetti sconosciuti, la squadra vinse subito
a mani basse il campionato di serie B e per tre anni si salvò
non solo, ma ottenne lusinghieri piazzamenti, in serie A.
Altro che amalgama, dopo pochi
mesi quel Foggia giocava a memoria, a occhi chiusi.
Asfissiava i disorientati
avversari con pressing puntiglioso e aggressivo, rubava palla e
innescava micidiali ripartenze. Sempre all’attacco,
naturalmente: quando passava in vantaggio, non si preoccupava di
difenderlo, ma di incrementarlo.
Metaforicamente, poi, il calcio
come possibilità di riscatto, come promessa di leale
affermazione, e di purificazione.
Per la prima volta il grande
pubblico calcistico aveva sotto gli occhi qualcosa di diverso,
in un Italia che per decenni era stata la patria del
“catenaccio”, della difesa a oltranza, del gioco ridotto a non
far giocare gli avversari, cioè del non gioco che mortifica lo
spettacolo, quindi in primo luogo gli spettatori, fregandosene
del pubblico pagante, del primo-non-prenderle, della
palla-lunga-e-pedalare, dello schema unico del
butta-via-la-palla-dalla-tua-area-e-poi-spera-, dello zero a
zero perseguito come un obiettivo e salutato come un trionfo,
della improvvisazione contingente e della furbizia truffaldina
elevate a sistema.
Il grande pubblico calcistico vide
il Foggia di Zeman e si stropicciò a lungo gli occhi.
Alcune giocate collettive sono
rimaste nella memoria indistruttibili.
Dalla propria area di rigore,
sulla difensiva, conquistata palla per un tackle o un rimbalzo,
quel Foggia, in pochi secondi, con due o tre triangoli disegnati
dalla geometria dei passaggi veloci e degli agili “marcamenti”
in proiezione offensiva, arrivava a mettere sotto la porta
avversario un suo attaccante, al quale non rimaneva che
indirizzare a rete l’ultimo passaggio
filtrante.
Roba da non credere, appunto, da
favola, eppure tutta vera.
Zdenek Zeman è l’allenatore del
momento.
Lasciata Foggia, “perché
non c’erano più le condizioni per potersi migliorare”,
lo prende la Lazio, che non è una squadra grandissima, ma pur
sempre una squadra importante è, con una tradizione consolidata,
fatta anche di scudetti e un pubblico vasto e appassionato: e
poi comunque così arriva a Roma.
Nella capitale Zeman rimane cinque
anni. I primi due, appunto, con la Lazio, con la quale ottiene
di seguito un secondo posto e un terzo posto, prima di essere
esonerato a metà campionato della terza.
Gli altri con la Roma, alla quale
lo chiama il Presidente Sensi: ottiene un pur sempre prestigioso
quarto posto, nonostante una serie impressionante di errori
arbitrali a sfavore, che possono essere quantificati con stima
attendibile in almeno venti punti in meno, cioè, senza di essi,
uno scudetto vinto alla grande, con distacco netto dalla
seconda.
L’estate del 1998, a trenta anni
dal suo arrivo in Italia, sarà un altro momento decisivo per il
destino di Zeman.
Comincia a parlare di doping e un
poco alla volta divampa nell’ambiente un putiferio, che gli si
ritorcerà ingiustamente contro, condizionandogli negativamente
la carriera.
Quella prima annata alla Roma, che
calcisticamente poteva e doveva essere quella della definitiva
consacrazione, rimane pur sempre però prestigiosa.
Uno dei cantanti più famosi,
Antonello Venditti, gli dedica addirittura una canzone, “La
coscienza di Zeman”.
Niente per caso. Antonello
Venditti è colui il quale è riuscito a scrivere sia la canzone
più bella mai composta in assoluto per amore per la propria
città, “Roma capoccia” e sia per amore per la propria squadra,
“Grazie Roma”.
Una canzone dedicata a un
allenatore non ha termini di confronto: è più unica che rara. Il
titolo, poi. Richiama il titolo di un romanzo fondamentale della
letteratura italiana, “La coscienza di Zeno”, di Italo Svevo. Ma
non si tratta soltanto di un gioco di assonanze. Nel romanzo il
protagonista, Zeno Cosini, si interroga a lungo sul proprio
rapporto con il fumo. Anche Zeman è un fumatore problematico.
L’ambiente ostile glielo rinfaccia come un peccato gravissimo
per uno sportivo. Ora, a parte che nessuno è perfetto, ma
accusare qualcuno di fumare come se fosse una colpa appare
francamente eccessivo.
Come Zeno, anche Zeman continuerà
tranquillamente a fumare. Quando venne imposto il divieto agli
occupanti della panchina sui campi di calcio ( una cosa quanto
meno singolare, per regolamenti che poi chiudevano tutti e due
gli occhi sull’uso di farmaci di ogni tipo e vere e proprie
droghe ), egli inventerà una sigaretta finta, di plastica, da
tenere fra le labbra.

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“Non
conto mai le sigarette che fumo ogni giorno, altrimenti mi
innervosirei e fumerei di più”
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Ma la canzone di Venditti non
parla del fumo; narra in maniera epica la filosofia di Zdenek
Zeman, sì, davvero, la sua coscienza
“La
folla sta impazzendo ormai
all’attacco vai
in
difesa mai
tu
non ti fermerai
perché non cambi mai
il sogno è ancora
intatto e tu lo sai”.
Nel frattempo, detto per inciso,
giacché siamo in tema, è diventato protagonista anche in teatro,
Zdenek Zeman: l’attore comico Antonio Albanese ne ha fatto il
personaggio di un suo spettacolo.
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“IL
MISTER”
Sempre
quell’anno memorabile successe che per l’ultima volta nella sua
vita mise piede in uno stadio, all’Olimpico, per una delle tante
sfide fra Roma e Juventus, un giornalista e scrittore affermato
come Manlio Cancogni, appassionato anche di calcio. Aveva 84
anni, ma la capacità di continuare a entusiasmarsi. Si
entusiasmò definitivamente di Zeman, che già aveva avuto modo di
apprezzare dai tempi del Foggia.
Pur
senza conoscerlo di persona, decise, riprendendo vecchie
stesure, di scrivere un nuovo romanzo con l’allenatore
cecoslovacco quale protagonista, sia pur trasfigurato in
un’altra epoca, la Roma fascista, in cui un allenatore
idealista, Ivo Zoran, viene assassinato in circostanze
misteriose.
Così,
due anni dopo, verrà alla luce “Il mister” ( Fazi editore ).
A più
riprese Manlio Cancogni ha parlato di Zeman in termini lucidi,
per quanto struggenti:
“Zeman
è di gran lunga il personaggio più simpatico del mondo
calcistico. Mi piace la sua legnosità, che lo fa sembrare
una sorta di Pinocchio, uno dei grandi personaggi della
letteratura italiana, uno specchio surreale, ma anche
assolutamente fedele del nostro Paese, anche se uno come Zeman
in Italia non potrebbe mai nascere.,,
Sono
affascinato dal suo spirito carismatico, dalla sua capacità di
comunicare oltre lo sport…
Mi piace il suo fisico legnoso, la
sua magrezza, il naso appuntito e indicatore, che usa come la
bacchetta di un direttore di orchestra.
Mi piace il suo verbo che traspare dai silenzi, dalle risposte
sibilline, dalla sua ironia.
Zeman
è un grande predicatore, perché crede nel calcio come
spettacolo.
E’ un
profeta che non viene ascoltato, come tutti i profeti. Il valore
delle loro parole verrà apprezzato soltanto nell’avvenire…”
Di lui mi affascina la parsimonia nell’uso
delle parole e la ricchezza spettacolare del suo calcio. Tutto
il contrario di quello che in genere accade nel campionato
italiano: dove si parla molto e si gioca poco”.
Ma a differenza di Pinocchio che
ricorda a Manlio Cancogni, Zeman non racconta frottole.
“Mi
capita raramente di dire una bugia. Per questo mi sento solo.
E’ un mondo, il nostro, in cui se ne dicono tante”.

Uno dei riti ineludibili in cui il
calcio si consuma è quello delle interviste del dopo partita ai
calciatori, agli allenatori e ai Presidenti. Da un po’ di tempo,
come se non bastassero, hanno aggiunto anche quelle del giorno
prima la gara.
Sono rappresentazioni allucinanti,
riprese in diretta televisiva, ripetutamente ritrasmesse
registrate e fedelmente trascritte sui giornali, come se fossero
chissà quali strabilianti affermazioni.
Nel 90% dei casi, invece, non si
va mai oltre le ovvietà ripetute e insistite, spacciate chissà
per quale rivelazione, con la complicità ancora più colpevole
dei giornalisti, che spesso ormai non fanno più nemmeno domande,
ma si limitano a suggerire l’argomento e stanno lì, trasognati e
ossequiosi, a far sentire il puntuale sproloquio fatto di
concetti triti e ritriti, in cui sempre la partita è difficile,
gli avversari sono forti, abbiamo fatto bene ( male ) e speriamo
di ( non ) continuare così, faceva caldo (freddo), questo (
quello ) ha fatto la differenza, siamo contenti (dispiaciuti)
e così via di questo passo, l’arbitro ha sbagliato, voglio
rivedere l’azione alla moviola, il rigore c’era, non c’era, ci
poteva stare.
Quel rigore che ci poteva stare,
poi, la formula ipocrita tanto di moda, è la frase rituale più
odiosa di tutte: insomma, un fallo da rigore, o c’è e allora
l’arbitro lo deve fischiare, o non c’è e allora non lo deve
fischiare e se lo fischia sbaglia, oh!
Con Zeman, invece, non è mai
così. Quando lo intervistano, anche sulle cose più banali,
sempre poche parole, intercalate da pause significative, ma
precise e incisive, “il suo verbo che traspare dai silenzi,
dalle frasi sibilline, dalla sua ironia”.
“A
chi mi chiede conto di alcuni errori commessi posso dire
semplicemente che chi fa, fa sempre errori; solo chi non fa
nulla non sbaglia. L’importante è fare errori in buona fede e
ancora più importante è accorgersene e porvi rimedio”.
Già, le pause. Come il suo
eloquio, anche le squadre di Zeman hanno le pause. Cioè, a un
certo punto del campionato, di solito dopo l’interruzione
natalizia e per tutto il mese di gennaio, sono come
improvvisamente imballate e perdono colpi, quindi punti.
Una delle accuse che i suoi
detrattori gli rinfacciano, pur senza scomporlo più di tanto:
“Tutte
le squadre hanno le pause. Gli altri non lo sanno perché ce
l’hanno, io sì”.
Ma l’accusa principale dei
detrattori si base sul fatto che le squadre di Zeman prendono
sempre molti gol: sbagliano spesso nell’ impostazione offensiva
e sovente si fanno trovare con la difesa sbilanciata, che non
chiude in copertura ( la così detta “diagonale” ) e quindi
permette agli avversari di arrivare facilmente davanti al
portiere.
Non si tratta di accuse infondate,
anzi, per dirla tutta, questo è vero.
E’ vero quanto è logico:
l’altissima velocità di esecuzione favorisce gli errori di
impostazione e la difesa alta, a zona, è soggetta a essere
perforata, ad aprire voragini, autostrade, praterie, come si
dice in gergo, per significare gli spazi per andare in porta
agli avversari; il gioco perseguito per tutta la durata della
partita, poi, richiede un notevole e continuo dispendio di
energie, quelle mentali, non meno di quelle fisiche e può
portare a commettere errori.
E’ altrettanto vero che le squadre
di Zeman di gol ne fanno sempre tantissimi e se ne prendessero
di meno vincerebbero tutte le partite, sarebbero imbattibili, il
che nel calcio non esiste.
Un periodo ipotetico
dell’impossibilità, per una contraddizione insanabile.
Gli imputano pure di non
rinunciare alla zona, alla follia offensiva, anche quando a poco
dal termine basterebbe qualche atteggiamento accorto e rilassato
per portare tranquillamente a casa il risultato, mentre spesso
si finisce così per prendere gol, magari negli ultimi minuti e
vanificare tutto: lo hanno chiamato il suicidio zemaniano.
Ma per Zeman in tal caso si tratta
soltanto e semplicemente di disattenzioni ed è inutile
insistere.
Infine, in un Paese in cui,
contrariamente a ogni etica sportiva, la sconfitta è sempre
tragedia, significa sempre umiliazione, lo accusano non solo di
non aver mai vinto nulla, in termini di scudetti, o coppe, ma
pure di accettare il risultato negativo sempre quale eventualità
possibile.
Ma qui il confronto diventa
insostenibile, fra chi persegue il fine con ogni mezzo e se ne
infischia del bel gioco, del rispetto, della dignità e chi, come
Zeman, antepone sempre a tutto la dignità, il rispetto, la
lealtà, l’educazione intesa come cultura dei valori: ”E
non è vero che non mi piace vincere. Mi piace vincere
rispettando le regole”.
UNA
BATTAGLIA DI CIVILTA’
Affrontiamo allora la battaglia di
civiltà condotta da Zeman contro il doping.
“Ci
sono sostanze che vengono definite dopanti e io, pur non essendo
un medico, capisco che se non si prendono non ci si dopa. Tutto
però dipende dalla definizione che si dà a certe sostanze.Per
essere più chiaro, insomma, dico che ci sono altri farmaci che
andrebbero inseriti in quell’elenco.
Al
di là di tutto, io mi rivolgo ai ragazzi che fanno sport e a
loro raccomando di non prendere alcun tipo di farmaco, perché
se uno è sano non ha bisogno di prendere certe pillole a
settimana e di farsi le flebo.
Del
resto il discorso è semplice: dato che si presume che uno che fa
sport è sano, non vedo perché debba prendere medicine.
Soltanto se è malato uno si cura; se sta bene, non deve curarsi.
Io
non volevo denunciare niente, ho soltanto detto certe cose, ho
espresso un mio parere, perché, per quello che mi arriva, so che
nel calcio si usano troppi farmaci.
Se
fossi a conoscenza di qualche caso particolare, lo denuncerei
immediatamente. E non penso di essere stato il primo a tirare
fuori certi discorsi: anche in passato c’è stata gente che ne ha
parlato, forse non è stata ascoltata.
Mi
sembra che negli ultimi tempi tutti hanno dichiarato che danno
delle cose ai giocatori.
Il
problema principale di molte società oggi è quello di trovare un
bravo farmacologo.
Io
come allenatore mi rifiuto di pensare che, invece di far fare
due giri di campo, ad un giocatore do una pillola.
Mi
ripugna questo.
Se
a me ogni settimana arrivano decine di depliant di case
farmaceutiche che pubblicizzano questo o quel prodotto, e mi
viene assicurato che la usano la squadra x e la squadra Y e che
migliora di un 50%-60% il rendimento, io sostengo che tutto
questo non è morale.
Quali squadre? Quasi tutte quelle di serie A”.
Le dichiarazioni di Zdenek Zeman
del luglio 1998 partono lentamente, con chiari, ma scarni
riferimenti ad alcuni giocatori della Juventus e si fanno via
via più precise e pesanti.
Dice quello che tutti
nell’ambiente sanno, ma nessuno osa denunciare: con la complice
e colpevole omissione della Federazione, che fa controlli
soltanto sull’uso delle droghe classiche, tralasciando tutta una
serie di altre sostanze, nel calcio da decenni ai giocatori
vengono fatti assumere farmaci e altre sostanze capaci di
migliorarne la condizione fisica e le prestazioni agonistiche.
Alcuni giocatori sono stati
colpiti da morti sospette, o da inspiegabili malattie, che
proprio all’uso di quelle sostanze sono state autorevolmente
messe in relazione.
Non è stato il primo a parlare, ma
il primo protagonista dell’ambiente, sì.
Le conseguenze di quelle parole di
Zeman non sono ancora finite adesso, dopo otto anni.
Ci sono stati due gradi di
processo celebrati dalla magistratura ordinaria, in seguito
all’inchiesta giudiziaria aperta dalla procura di Torino.
Non ci interessano, in questa
sede, le sentenze della giustizia ordinaria, né gli
approfondimenti tecnici processuali, perché l’etica sportiva e
le implicazioni sociali vanno al di là del codice penale.
Al di là degli esiti legali, tutti
hanno potuto vedere gli imbarazzati silenzi, i “non ricordo”, i
“non so” con cui tanti calciatori, sfilati nelle aule di
Tribunale, hanno risposto ai magistrati che chiedevano loro lumi
su quanto veniva fatto loro ingerire prima di ogni partita.
Tutti hanno potuto vedere tempo fa
un video amatoriale, chissà come saltato fuori da qualche casa
privata, in cui Paolo Cannavaro si fa una flebo in una camera di
albergo prima di una partita non di vitamine naturali, ma di un
farmaco che si usa per alleviare le sofferenze dei malati
terminali.
Tutti hanno potuto constatare che
la Federazione è corsa ai ripari e ha cominciato a fare
controlli completi e precisi, nel proprio centro di analisi.
Al di là delle condanne; dei
patteggiamenti; al di là delle assoluzioni, a quelle in
antitesi: al di là delle prescrizioni, nel senso di reati
prescritti ( l’abuso di farmaci è stato comunque confermato,
anche se dichiarato non punibile in base alle leggi dell’epoca)
e delle prescrizioni, nel senso di ricette mediche; al di là dei
diversi giudici e dei periti dotti e indotti; al di là di tutto
questo, è rimasto quanto tutti hanno potuto vedere .
In questa sede, ci interessa il
giudizio per così dire “politico” che, come abbiamo creduto di
poter riassumere, ci si può fare sull’intera vicenda.
Un giudizio quindi positivo.
Il calcio, a differenza di tanti
sport, sia pur con lentezza, ha scoraggiato, sta scoraggiando
l’uso di prodotti artificiali, di sostanze medicinali per
alterare le prestazioni dei giocatori.
Ancora più positivo, se si pensa
che si è scoraggiato un modello che si stava imponendo, o che si
era già imposto, con effetti perniciosi sulle giovani
generazioni.
Non dimentichiamo che il calcio
non sono le venti squadre di serie A: il calcio sono le decine
di campionati, le migliaia di squadre i milioni di calciatori
che a tutti i livelli e con varie articolazioni e svariati
interessi lo compongono.
Di tale affermazione della cultura
e della morale sportiva bisogna rendere grazie a Zdenek Zeman.
Anche se egli poi risponderebbe,
come ha fatto veramente in circostanze simili:”La
politica la lascio agli altri. Io voglio fare l’ allenatore.
Io sono soltanto un allenatore. Il culto lasciamolo ai santi”.
LE
PAGINE SCURE
Nel 1999, Sensi lo manda via dalla
Roma, dichiarando che lo ha fatto per non avere più contro il
Palazzo del potere calcistico.
Rimane disoccupato prima, poi
comincia una serie nera, che lo porta in Turchia, a Napoli, ad
Avellino, a Salerno, per brevi e negative in termini di
risultati tappe della sua carriera.
Di sicuro non trova le condizioni
tecniche e ambientali per poter far bene, altrettanto
sicuramente non ce ne sono né i presupposti, né le possibilità.
“A
Napoli il frullatore della modernità non è mai riuscito a
triturare l’orgoglio e la supponenza dell’antica capitale.
E
se questa per certi versi è una fortuna, dall’altra è una
maledizione: si vive dimezzati tra un passato di splendori e un
futuro di incertezze.
I
Napoletani credono di aver inventato tutto loro, compreso il
calcio. E non si accorgono che il calcio anche da quelle parti,
ormai, è un’industria. Purtroppo. E io l’industria non la so
fare. O meglio, potrei pure farla, ma preferisco allenare.
Ecco perché, probabilmente, le mie avventure in
Campania non hanno dato i risultati sperati: il successo
immediato mal si concilia con la fatica quotidiana”.
E’il suo periodo peggiore, che si
trascina per alcuni lunghi, quanto sconfortanti anni.
“Lo
ammetto: se posso, preferisco allenare una squadra del Sud. Qui,
più che altrove, la passione sopravvive alla svendita dei
sentimenti, all’ipocrisia di quel gran carosello industriale che
è diventato il calcio e un po’ pure la nostra vita. E se a volte
al Sud si eccede, non importa: meglio un peccato d’entusiasmo,
che il purgatorio dei contabili”.
Nell’estate del 2004, sulla
panchina del Lecce, del Presidente Semeraro e del direttore
sportivo Corvino, ottiene però di nuovo un’opportunità in serie
A.
Non se la lascia sfuggire.
Il campionato di serie A 2004-2005
del “Lecce di Zeman”, come si comincerà a dire in un tutt’uno, è
una stagione per tante ragioni memorabile.
E’ il trionfo, la sublimazione
dello zemanismo, ecco.
Nel senso che si rivede per molti
tratti zemanlandia.
A Lecce i tifosi non credono ai
loro occhi. Abituati a salvarsi con l’acqua alla gola, a subire
in difesa, a patire di stenti, a salutare un proprio gol come un
evento, si ritrovano: un attacco stratosferico che segna a
ripetizione e una squadra che impone il proprio gioco a tutti,
che fa spettacolo e diverte, con giovani che emergono e tutti
gli altri che sembrano rinati.
Ma la sublimazione dello zemanismo
pure nel senso che è una squadra che prende tanti gol, specie
negli ultimi minuti, finendo col perdere magari dopo aver
dominato.
Una partita che sembrava chiusa
sul 3 a 0, per esempio, finisce, non ci posso credere, 4 a 5!
Cose così.
Ma quei tifosi leccesi che erano
abituati a eccetera eccetera, proprio perché erano abituati a
eccetera eccetera, si innamorano follemente - e non c’è verbo,
né avverbio migliore per esprimere il concetto- di Zeman.
Per tutta la stagione
successiva, dopo che il loro beniamino aveva lasciato, per
tante altre e diverse ragioni, la panchina, al di là degli
allenatori succedutisi, espongono sempre in curva uno
striscione che diceva. “Con Zeman contro il sistema”.
MOGGIOPOLI
Da “mani pulite” a “piedi puliti”,
il profetico preannuncio della tangentopoli del calcio,
scoppiata agli inizi dell’estate 2006, allo stesso modo in cui
lo stesso Zeman ne era stato il lucido anticipatore.
In una delle tantissime telefonate
del direttore sportivo della Juventus Luciano Moggi registrate
su ordine dei giudici nel corso di due anni, così, riferendosi a
Zdenek Zeman, egli si esprime con il suo interlocutore, il suo
Presidente Antonio Girando:
“Bisogna...Bisogna fargli
qualcosa, non so, un sistema…Peccato che…Bisogna dargli una
legnata…Raccogliere dossier per screditarne la
reputazione…Bisogna prendere le emorragie, dandogli un danno a
questo qua, inventandoci qualcosa…”.
E’ storia recente, anzi: è ancora
cronaca.
Ma pochi videro e ancor meno
ricordano che dopo una sconfitta casalinga per 0 a 1 subita in
quel campionato dalla Juventus, in un’intervista televisiva,
Zeman, sempre col suo stile scarno, ma nitido, come se stesse
ricostruendo e spiegando gli avvenimenti alla maniera Tucidide,
parlò per primo del sistema totale di condizionamenti messo in
opera da Moggi e Girando.
Giova ancora ricordare la nemesi
della Storia: le intercettazioni telefoniche che hanno dato il
via a tutto quel fenomeno chiamato “moggiopoli” furono a suo
tempo ordinate dalla magistratura ordinaria in seguito alle
inchieste condotte nell’ambito delle indagini sul doping.
E’ ancora cronaca e non è
necessario e forse nemmeno giusto aggiungere altro a quanto
tutti hanno da poco letto, sentito, visto e vissuto.
Anche in questa occasione, al di
là delle sentenze della magistratura penale e civile ancora a
venire, anche oltre i pronunciamenti della giustizia sportiva
nel frattempo sopravvenuti, ci interessa il giudizio politico.
Il giudizio politico, anche questa
volta positivo, al di là degli esiti limitativi che hanno
assunto i giudizi giudiziari, dice che comunque un bel po’ di
pulizia è stata fatta e che comunque un esempio indicativo di
cosa non deve più succedere è stato dato.
Certo, è innegabile che Zeman
abbia ragione sia con le proprie aspettative, sia con l’amara e
ironica al tempo stesso constatazione con cui ha commentato
prima l’avvio e poi l’esito del processo sportivo ai
responsabili della corruzione: “Dopo
tanti anni di trucchi, imbrogli, bugie, inganni e illeciti non
casuali, ma di Sistema, ora c’è finalmente la possibilità di
cambiare quel sistema, di fare calcio in maniera diversa, di
farlo tornare solo uno sport.
Hanno distrutto la credibilità di un gioco che il popolosa
eletto come propria principale passione e veicolo di sentimenti.
Chi
dovrà giudicare adesso e chi si ritroverà a fare calcio da
domani ha il dovere di riportare in prima linea i valori morali
da trasmettere alla gente, affinché il mondo del pallone non sia
più il mondo esasperato che abbiamo vissuto negli ultimi dieci
anni; gli stadi non siano più zone di guerra e territorio di
lotta politica; e nei bar e nelle piazze si possa tornare a
parlare di calcio, di giocatori, di tecnica e di tattica e non
più di processi, corruzione, sudditanze, bilanci truccati o
atleti dopati
La credibilità del calcio è già morta. Ora si
deve decidere se si vuole rinascere”.
“Il
calcio ha perso una grande occasione, si continuerà con lo
stesso andazzo.
Morale, sport, etica sono altre cose, se oggi non valgono è un
altro discorso. Il sistema era da punire.
Mi
sembra strano che Carraro sia stato giudicato da una corte per
buona parte nominata da lui.
Alla fine ho pagato più multe io alla Caf che
lui, eppure mi sembra di aver fatto meno danni”.
A volte ritornano.
Dopo una breve parentesi al
Brescia a campionato in corsa, anzi, giusto sulla dirittura
d’arrivo, una situazione estemporanea quanto assurda, che il
Presidente ha fatto male ad inventare e l’allenatore ugualmente
male ad accettare, vissuta sull’inevitabile crisi di rigetto
della squadra e conclusasi con l’inevitabile flop, Zdenek Zeman
è tornato per la nuova stagione ed è tornato sull’ultima
panchina gestita dal ritiro precampionato a fine torneo.
E’ tornato accolto da entusiasmo
ed anzi euforia da chi in cuor suo non l’aveva mai lasciato e
può così continuare a salutarlo con gioia come Maestro.
E’ tornato a Lecce.
Per poco però.
Dura quattro mesi il ritorno a
Lecce.
Alla guida di una squadra
raffazzonata, dalla quale non riesce a farsi seguire, viene
licenziato a fronte di risultati giudicati deludenti.
Ma Zeman non sarà amato soltanto
dai tifosi del Lecce: sarà sempre amato senza distinzioni e
senza eccezioni da tutti i veri appassionati del calcio.
Ha scritto Andrea Cocchi,
giornalista di “Controcampo”:
“Sono uno zemaniano perso. Un
integralista del 4-3-3, un boemo dipendente. Non chiedetemi i
motivi, non si può spiegare l’amore. E’ qualcosa di irrazionale,
una forma di malattia.
Faccio parte di quel partito
trasversale che ogni domenica ( o venerdì, sabato e lunedì,
visti i ritmi del pallone italiano ) si informa sui risultati
delle squadre di Zeman e reagisce come un tifoso qualsiasi.
Anzi, come un ultrà qualsiasi.
Ho scoperto, con grande
gioia e sorpresa, che questa sorta di confraternita zemaniana è
assai sviluppata. Accoglie varie tipologie di appassionati di
calcio: dai tifosi delle sue ex squadre, rimasti così colpiti
dalla bellezza del gioco proposto dal boemo, da rimanere suoi
seguaci a vita, a tutti quelli che vogliono continuare a credere
nei sogni impossibili. Una confraternita, dicevamo. Una specie
di massa pallonata parallela che fa fatica ad accettare il
calcio attuale e ha un folle e romantico bisogno di attaccarsi
alle utopie come Linus alla sua famosa coperta”.
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Anche
l’ultima sfida si conclude male. Va a Belgrado, alla comunque
prestigiosa Stella Rossa, nell’estate del 2008, ma non riesce a
superare i turni estivi di qualificazione per la coppa Uefa e,
ultimo dopo tre giornate di campionato, viene subito esonerato,
ai primi di settembre.
Le
incomprensioni con i dirigenti jugoslavi, che non gli hanno
fatto gestire la campagna acquisti/cessioni e, in più,
pretendevano subito tutto, il motivo chiarissimo di questo
fallimento annunciato.
“Sempre
più industria e sempre meno gioco”, aveva detto amaramente,
ma lucidamente profetico, dieci anni prima, sul mondo del
calcio.
Ci manca.
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